Il nome da solo incute timore, riverenza, paura, malinconia, orrore, angoscia, speranza. Non so quello che mi ha spinto a cercare qualcosa che va oltre ai fiumi di parole versati negli anni, ma é un richiamo che sentivo da tanto, vedere un angolo di mondo abbandonato dove per un malefico incantesimo tutto si é fermato in uno strano giorno assolutamente normale.
Era il 26 aprile del 1986, avevo compiuto 24 anni da pochi giorni ed era una settimana spensierata, perché continuavo i festeggiamenti. La notizia in tv scandagliò tutte le coscienze: era come se il mondo si fosse fermato.
Non si va a Chernobyl per curiosità, si va perché qualcosa di altrettanto strano e normale ti dice che ci devi andare e ti fa prenotare il viaggio (assolutamente organizzato) che ti condurrà lì, dove non sai cosa trovi. E parti senza aspettative, con un sentimento di abbandono che si trasformerà pian piano in vero e proprio trasporto emotivo. Un viaggio in quel posto dove tutto può essere contaminato, anche i pensieri.
Le regole sono ferree: scarpe chiuse con calze lunghe, braccia coperte da maniche fino al polso, non toccare nulla, non sedersi a terra. Entrando nella Zona di Alienazione i controlli sono d’obbligo: passaporti e borse vengono setacciate.
L’ingresso ai turisti é monitorato dai guardiani che, dopo severi controlli, aprono la sbarra a pochi passi dalla stazione in rovina.
Sul minibus che da Kiev porta a destinazione la tv in alto trasmette il documentario: un crudo racconto dove si vedono scene di vita locale quotidiana, con le persone che continuano il loro tran tran fino a quando le autorità sovietiche decidono di dare il via all’evacuazione. Un incredibile test che doveva controllare la sicurezza dell’impianto nucleare, nell’anno di grazia 1986, andò storto ed un’esplosione sputò dal reattore n.4 circa 9 tonnellate di scorie radioattive che salirono nell’atmosfera. Negligenze organizzative? Fattore umano? L’ordine di evacuazione fu dato 33 ore dopo, e la popolazione di Prypiat passò questo tempo ignara delle radiazioni, vivendo un altro giorno normale. Nel resto dell’Unione Sovietica la notizia fu data addirittura il giorno seguente, il 28 aprile, mentre una nube radioattiva si avviava verso il nord, con venti che la facevano correre sulla Bielorussia, fino in Svezia, che lanciò un allarme, avendo rilevato una radioattività nell’aria che ben si scostava dai livelli medi.
Pripyat, a circa 100 km a nord di Kiev e solo 16 dal confine bielorusso, era una città giovane di circa 50.000 abitanti, nata 16 anni prima della tragedia appositamente per i lavoratori della centrale nucleare di Chernobyl, situata a circa 2 km dal centro. L’urbanistica di stampo sovietico, con cinque quartieri residenziali a forma di quadrilatero: Al centro tutti gli edifici pubblici e ricreativi: municipio, teatro, ospedale, cinema, parco, asili, piscina, campi da tennis e da football. Una città modello, perfettamente organizzata, che si trasformerà a breve in città fantasma, o quasi, perché in realtà la natura, che é il più grande combattente, non solo resiste, ma ha trovato un equilibrio per andare avanti, affrontando l’orrore con grande dignità e costanza. La vegetazione, rigogliosa, ha coperto le rovine ed i boschi contaminati continuano ad ospitare animali di varie specie che coesistono in quest’atmosfera apparentemente silente e disabitata: tra loro lupi, cervi e orsi.
Trent’anni fa circa 200 anziani decisero di tornare nelle loro case, (malgrado l’ordine tassativo di restarne fuori) in villaggi intorno, per continuare la loro “normale” convivenza con l’ambiente, mangiando i prodotti che vengono coltivati da loro stessi in terreni contaminati. Lì sono radicati i loro ricordi più cari e sempre lì, in armonia con la natura, vogliono trascorrere fino all’ultimo giorno della loro vita.
Anna ha lasciato questa terra lo scorso anno, dopo una vita di sacrifici. Lei si ricordava perfettamente il giorno in cui vide volare sulla sua testa elicotteri (gli strani oggetti grigio topo che disturbarono la quiete della sua cascina, con un roboante rumore). E, poco dopo, l’irruzione di quei militari dall’aspetto severo che le intimavano di abbandonare la sua vita, le sue gioie, i suoi dolori. Li cacciò via e continuò a coltivare il suo orto con lo stesso amore di sempre. La terra arida e malata con all’orizzonte la vista sulla centrale. Anna e la terra che rappresentava tutta la sua vita. Anna é volata in cielo, a novant’anni compiuti, lasciando la sua terra sola, quella terra che l’ha trattata come una figlia e che lei ha curato come una madre: una simbiosi di amore che racchiude tutti i sentimenti del mondo. Ciao Anna, la tua vita é un grande esempio di determinazione, sacrificio, forza ma soprattutto grande immenso Amore.
Il minibus si snoda tra il silenzio grigio e inodore di lunghi viali che portano verso lo scenario apocalittico di Prypiat e dintorni.
In alcuni posti la vegetazione ha riconquistato il suo territorio e aperto l’asfalto per espandersi: occorre fare una deviazione per continuare. Camminare nelle case abbandonate, sfiorare macchine scrostate dal tempo, sostare a bordo piscina, farsi strada tra rovi e frutti rossi, che spiccano nel silenzio incolore della città….. un’istantanea d’epoca con un nodo alla gola. I momenti più forti sono forse quando entri negli asili nido, dove tutto é apparentemente rimasto intatto….solo i colori sono cambiati ed il silenzio nell’aria é riempito da una strana sensazione, come se i fantasmi ti parlassero e ti spingessero a guardare attraverso finestre aperte sul mondo che non c’é.
Nella passeggiata si possono avere livelli di radioattività normali, poi all’improvviso ci si sposta di pochi passi ed ecco che il contatore Geiger rileva una radioattività 100 volte superiore al limite di sicurezza, semplicemente accostandolo al terreno.
E poi ci sono quelle visioni simbolo che ti fanno tornare indietro di 32 anni….. la ruota panoramica, che doveva essere inaugurata la settimana successiva al disastro, ti appare come un gioco d’azzardo. Non vorresti ma vuoi, sembra si muova ed il tuo sguardo segue i cestelli della ruota dove ragazze con il fiato corto e gli occhi chiusi fanno svolazzare vestiti colorati, in un girotondo stellare. Solo urla di paura e gioia rompono quel silenzio non apparente. Ed i meccanismi arrugginiti si trasformano in oro zecchino per farti ricordare un paese dei balocchi. Scendere dalla ruota e tornare alla grigia e muta realtà é come andare in apnea in un mare torbido senza pesci.
Per informazione: Chi vuol provare questa esperienza può affidarsi alle organizzazioni ufficiali che programmano viaggi di uno o due giorni e che aiutano l’economia locale, che ha avuto una crisi spaventosa negli ultimi decenni. Partendo da Kiev, con accompagnatore autorizzato a varcare la soglia dell’inferno, la giornata scorre veloce, tra battiti del cuore e respiri lunghi, per metabolizzare l’attimo. Ci si ferma per un pranzo nella mensa ufficiale che serve anche tutte le persone che lavorano all’interno della Zona: si tratta di tecnici, ingegneri, guardiani, poliziotti, pompieri, medici, guardie forestali che monitorano e osservano la centrale, soprattutto il nuovo sarcofago che ha coperto il reattore n.4.
I turni sono stabiliti con la logica del tipo di lavoro effettuato. Un monitoraggio quotidiano, sia da parte di medici specializzati che dai dosimetristi, permette di definire al singolo lavoratore la sua presenza da un giorno ad alcune settimane. Così anche il turista che si ferma per la notte potrà alloggiare presso uno dei due Hotel in zona, costruiti apposta. In tutti questi casi viene garantito che il cibo arriva giornalmente da fuori, e quindi non ci sono rischi di contaminazione.
Al ritorno il silenzio regna sovrano sul minibus: ognuno cerca di metabolizzare una giornata troppo intensa. Io osservo dal finestrino la strada che corre veloce, tra campi illuminati da un caldo sole estivo brillante, alternata a boschi verdissimi: il paesaggio sembra perfetto, quasi fiabesco nella sua autenticità. Ma la stanchezza psicologica prende presto il sopravvento e mi lascio cadere in un sonno liberatorio. I sogni però saranno in bianco e nero.
“L’isola è un buco nell’acqua, riempito di terra” (Anonimo). In questo caso aggiungerei… un giardino, sperduto in quel luogo che, in passato, era una speranza
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