Sembra strano trovare ancora una intera nazione dove la popolazione è curiosa e sorpresa davanti ad un viso dalla pelle più chiara o da un colore di capelli diverso. Eppure in Bangladesh è ancora così: la gente si ferma, ti accerchia e ti fissa, semplicemente per osservarti, in silenzio, con uno sguardo fatto solo di curiosità, bocche spalancate dallo stupore. Poi all’improvviso esce una voce, tra decine di visi silenti: “your country?”. Ed alla risposta parte un “ohhhhhhhhhh! “ lungo chilometri, seguito da grandi sorrisi e messa in posa, nella speranza di essere il prescelto per una foto ricordo. L’orgoglio di essere al centro dell’attenzione di un turista, fa crescere l’auto stima, ed ecco che i meno timidi si fanno avanti, chiedendo loro di essere immortalati tra i ricordi che porteremo a casa. E i giovani tirano fuori il loro cellulare e si mettono in fila, per un “madam, selfie, please”.
In Bangladesh, su un territorio che è esattamente la metà dell’Italia (148000 km quadrati), vive una popolazione che è il triplo (circa 180 milioni di persone). Il 90% della popolazione è musulmana, l’8% induisti, il resto buddhisti, cristiani ed altro.
Dhaka è una delle capitali più popolose del mondo. Un luogo dove una fitta rete di treni, bus, tuktuk, risciò, biciclette, CNG (i nostri Ape Piaggio, i taxi motorizzati a tre ruote) e barche, sono presi d’assalto da un’incontenibile folla, uno sciame di persone che sembra non dormire mai.
La Venezia d’Oriente, per via del suo intrecciato territorio di vicoli fluviali, è l’ennesimo esempio di come la modernità ed il vecchio mondo convivano, anche se con contrasti al limite. I quartieri poveri sono ghetti di ardua sopravvivenza.
Per una prima vera immersione nel paese il mercato è il fulcro della vita locale. Tra spezie piccanti, verdure freschissime e frutti profumati, sfila la collezione di stagione. Un trionfo di prodotti che farebbero felici ogni amante della dieta mediterranea. Melanzane, cavolfiori, carote, pomodori, fagiolini e zucche dalle varie fogge, indossano l’abito elegante per attirare il compratore.
L’oro del luogo, quel pesce ancora sgambettante, pronto a trionfare sul tavolo serale, circondato da riso nelle sue varie espressioni, ed i gamberoni reali, freschissimi, una delizia. Sembrerebbe il paese di Bengodi, ma purtroppo non è così. Il Bangladesh è uno dei paesi più poveri al mondo.
Oggi, oltre il 35% della popolazione vive in condizioni di povertà estrema, molti giovani non hanno la possibilità di frequentare la scuola e vengono sfruttati. La maggior parte delle donne è completamente analfabeta. A questo si aggiungono le alluvioni che spazzano via i raccolti, e distruggono villaggi. Ma alla povertà “analfabeta” purtroppo si sta aggiungendo quella classe media che prima del Covid riusciva ancora a mettere qualcosa da parte. Oggi il prezzo del riso (l’alimento base di tutta la popolazione), è passato da 26 a 51 taka, così come la maggior parte dei prodotti ha subito un raddoppio dei prezzi. A fronte di un salario stabile, colui che riusciva a pagare l’affitto ed inviare qualche risparmio ai genitori che vivono nelle aree rurali, oggi è costretto addirittura a chiedere prestiti e fare lunghe code per acquistare dalla società di governo Trading corporation of Bangladesh (Tcb), che vende beni a prezzi sussidiati per i poveri. Ma anche qui si insidiano i truffatori, che si intrufolano tra i veri poveri, e comprano i prodotti per poi rivenderli sul mercato al doppio del prezzo. Per questo, anche la ormai ex classe media, si trova a dover andar via a mani vuote, dopo ore di fila: è l’impotenza dei NUOVI poveri, numeri allarmanti, stimati a circa 35 milioni, in un paese dove la fragilità economica viaggia di pari passo con corruzione e ingiustizie interne. Mentre gran parte della popolazione vive nelle campagne, la disponibilità di terra diventa un incubo: la corruzione dei potenti alleata ad un apparato giudiziario senza scrupoli, approfitta dell’ ignoranza dei contadini che vengono spogliati dei loro appezzamenti di terreno. La mezzadria diventa una rapina: costretti a cedere il 60% del loro raccolto. A questo si aggiungano uragani e tifoni che possono ulteriormente compromettere il raccolto. La disperazione li fa emigrare in città, ed ecco che le baraccopoli crescono: inferni umani dove sono ammassati milioni di persone. La sola capitale ha oltre cinquemila ghetti dove vivono oltre quattro milioni di disperati in baracche fatiscenti, senza corrente elettrica e senza possibilità di curare neanche una dissenteria. “La casa delle melanzane”: sembrerebbe un nome bizzarro, quasi poetico: in realtà “Begunbari” ha questo nome semplicemente perché sorge lungo i binari che portano al mercato ortofrutticolo di Dacca. Una immensa latrina a cielo aperto, dove venticinque mila persone, senza età’ (nel mio lungo viaggio in tutto il paese incontrerò moltissime persone che non conoscono ne’ la loro data di nascita, ne’ quella dei figli), vivono tra rifiuti e fogne a cielo aperto.
È sconvolgente sapere che alcuni di loro lavorano, non solo scaricando i camion o vendendo il proprio sangue, ma anche nelle fabbriche di abbigliamento che sono sorte come funghi negli ultimi decenni. “Lo sviluppo industriale del paese punta sull’industria tessile, in particolare il settore delle confezioni”: con quattro milioni di persone (e oltre l’80% di export), il Bangladesh è il secondo nella classifica dell’export (dopo la gigantesca Cina). I numeri sembrerebbero promettenti: peccato che i salari siano talmente bassi da non permettere, non una vita decente, ma una sopravvivenza umana. I grandi gruppi mondiali negoziano prezzi sempre più bassi, tanto che Zara, Walmart e H&M (solo per fare alcuni esempi) possono così lanciare la moda “Fast fashion” (“usa e getta”), la nuova “follia consumistica”. E a pochi importa (o forse non lo sanno), che in realtà dietro a quei miseri spiccioli per l’acquisto di un pantalone od una felpa, c’è la vita di una donna che scorre, metodica, seduta dodici ore al giorno dietro ad un telaio od una macchina da cucire, con gli occhi fissi e mani e piedi in movimento continuo. Nessun contributo sociale, niente ferie, nessuna paga quando deve partorire e non può lavorare. Due dollari al giorno: questo è lo stipendio nei laboratori di cucito.
“Dignità” sembra una parola sconosciuta.
In città gli spostamenti sono una roulette russa, con ogni tipo di mezzo: tra autobus ammaccati, vetture con parafanghi divelti, camion scassati che sputano come ciminiere, motociclette graffiate, ed i nostri Piaggio customizzati, si infilano i mezzi più numerosi, economici e decisamente eco-friendly, i risciò a pedali. In una città con oltre 17 milioni di abitanti, vige la legge del più forte. Inutile ambire ad un ordine anche casuale, occorre subito entrare nella frenetica ed incosciente follia dello sciame direzionale, sperando di salvare le piume.
I risciò sono personalizzati, frutto di fantasia e lavoro, per rendere il proprio mezzo accattivante e ci sono delle vere e proprie opere d’arte.
Lasciato l’incontrollabile caos della capitale, ci si abbandona ad un lungo respiro, alla ricerca di un’aria pulita che riempia i polmoni.
Il quadro appare presto, quando si arriva a pochi chilometri dal confine indiano. Srimangal è una meravigliosa oasi che sa di pace: un paesaggio fatto di dolci sfumature di verde, che si frappongono con pennellate d’autore. Srimangal è la capitale bengalese del te’.
L”oro verde” abbonda sui pendii, dove donne dai lunghi capelli corvini e sari colorati trascorrono tutte le loro lunghe giornate piegate, raccogliendo con le mani affusolate, le foglie della preziosa pianta. Un lavoro duro e sottopagato (fino a pochi mesi fa poco più di un dollaro al giorno) che, in un paese sovrappopolato, dove non ci sono altre opportunità, viene quasi tramandato in modo naturale. Le condizioni dei lavoratori non sono molto cambiate da quando, nel XIX secolo, i latifondisti inglesi portarono qui le piante del te’ che si svilupparono velocemente grazie alle ottime condizioni climatiche. Oggi sono le grandi compagnie straniere che gestiscono questo business con alcuni latifondisti locali. I pochi diritti dei lavoratori non permettono certo una vita dignitosa. Il sindacato dei lavoratori ha ottenuto il diritto di avere una scuola elementare in ogni piantagione, ma, poiché si trovano in luoghi sperduti, in realtà l’istruzione dei figli dura pochi anni. Ed il destino della prole sembra tristemente essere quello di continuare il lavoro dei genitori, spaccandosi la schiena nei campi, senza possibilità di riscatto sociale. Pochi mesi fa la lotta sociale ha fatto aumentare la paga a 1,7$giorno, ma vedere le donne nel tardo pomeriggio in fila, con quattordici/quindici chili di peso sulla testa, davanti alla pesa e poi la consegna del frutto della giornata, fa molta tenerezza.
E quello scambio di sorrisi e scatti, che sembrano opere di Steve McCurry, celano un profondo velo di malinconia sia per noi che sappiamo che per loro, che non sanno.
Nilkantha Tea Cabin è “IL” luogo dove è nato e si può gustare, il famosissimo te’ a sette strati, detto anche “te’ arcobaleno”. È una bevanda calda molto rinomata in Bangladesh, perché ha la particolarità di avere sette strati, ognuna con una spezia diversa (e purtroppo anche molto zucchero). La ricetta originale è segretissima: gli strati e le consistenze dipendono dal tipo di foglie utilizzate per l’infuso, tra queste il quarto strato è una miscela di te’ nero e latte condensato, mentre l’ultima te’ verde e cannella.
Il risultato visivo è sorprendente (non la foto), il gusto è ottimo, anche se indecifrabile per le mie papille, ma l’atmosfera del luogo è decisamente piacevole.
Lungo la strada i cotoni per i tessuti appena tinti, vengono messi al sole ad asciugare.
Lawachara National Park è un parco nazionale. Qui, all’interno di una foresta gentile, vive il gruppo tribale dei Khasi, un gruppo etnico che in tempi antichi abitava l’intera Indocina. Cacciati e perseguitati, sono fuggiti e si sono insediati tra le colline della regione nord orientale del Bangladesh (e parte in India). Qui sono di religione Cristiana. La particolarità di questo popolo è il sistema matrilineare. I “kur” sono grandi clan in cui la persona più importante è la madre, la sacerdotessa della famiglia, colei che gestisce la distribuzione della ricchezza comune. Il termine “Kha-si” significa proprio “nato da una madre”. È un ruolo impegnativo, perché la matriarca deve aiutare anche i membri del clan in difficoltà. La matrilinearita’ fa ereditare alla figlia minore il patrimonio di famiglia. In quanto all’uomo, deve portare a casa il frutto del lavoro. Ed a lui è concesso fare visita alla propria partner solo di notte.
L’accoglienza nel villaggio è serena, in una normale giornata di dicembre. È quasi inverno per loro ma le attività sono le stesse: occuparsi degli animali (mucche o polli), preparare le foglie di betel, che verranno vendute al mercato, pulire casa , andare nei campi. Una vita semplice lontana dagli agi : per raggiungere la città c’è un lungo sentiero sconnesso, da percorrere.
Si riparte, con una sosta da Pansi, una catena di ristoranti tradizionali. La specialità locale è il khichuri, delizioso pollo con riso e lenticchie . E poi un misto di verdure speziate, ottime.
Arrivata a Dhaka ci imbarchiamo sul “lussuoso” traghetto Prince Awlad 10, che parte alle 21 e ci permetterà di raggiungere Barishal alle 6 del mattino seguente.
Molte famiglie non si possono permettere le cabine con aria condizionata e si sistemano nel grande salone al piano base.
Barishal è una ridente cittadina. Ma il vero interesse della zona è il mercato galleggiante raggiungibile dopo un’ora di auto ed un’ora di battello, che attraversa villaggi di pescatori sulle rive del fiume, dove la vita scorre lenta e metodica.
il colorato mercato galleggiante è una tela di ragno, dove le barche si sfiorano sulle dolci acque di quel sacro fiume.
E poi una passeggiata nel mercato locale, tra i commercianti:
venditori di tabacco,
di pesce
di sementi
e, naturalmente frutta e verdura
Sempre circondati da visi sorridenti. Gli uomini sono orgogliosi di mostrare la loro barba tinta di un arancio fiammante, molto di moda in questo periodo.
Un ragazzo ci accompagna con il suo risciò fuori dal paese, in una scuola, dove insegnanti ed alunni ci accolgono con grandi ovazioni.
Si ritorna a Barishal.
Mentre percorriamo la strada verso l’hotel, il nostro bel van nero viene fermato dalla polizia. Nessuno ci chiede i nostri documenti (a parte l’autista e la guida, siamo io e la mia amica inglese), anzi ci ignorano completamente. semplicemente, viene detto all’autista di lasciare le chiavi e di svuotare l’auto. La nostra guida chiama un taxi, spostiamo i nostri bagagli e ce ne andiamo in Hotel. Per loro è una situazione normale: la polizia prende le auto nuove (soprattutto i van), li utilizza per un paio di giorni (magari per portare la famiglia in viaggio), dopodiché telefona al proprietario e dice di tornare a prendere la vettura.
Così come il giorno successivo, con un altra auto, ci troviamo ad un posto di blocco illegale: stop e pagamento di pochi spiccioli, per poter proseguire.
Ultima visita ad un ennesimo splendido mercato del pesce, prima di partire per Mongla, con alcune soste.
Lo Shrine of Khan Jahan Ali si trova sull’’argine del Thalie Dighi. Il complesso è costituito dall’edificio tombale quadrato dello stesso Khan Jahan e una moschea a cupola singola.
Poco distante la moschea a nove cupole
Il Sixty Dome Mosque (la Moschea a sessanta cupole) di Bagerhat è un sito Unesco. È la più grande moschea in Bangladesh costruita durante il Bengal Sultanat da Khan Jahan Ali, governatore del Sundarbans.
Ovunque aleggia un’atmosfera mistica
La strada per Mongla è famosa per la pesca dei gamberi (spediti in tutto il mondo)
Per ora vi lascio qui, nell’attesa della seconda parte del mio viaggio in Bangladesh. Vi porterò nella più grande foresta di mangrovie del mondo, poi in uno dei bordelli del paese « ufficiale, approvato dal governo musulmano”, poi in una delle spiagge più lunghe del mondo, ed infine tra i villaggi dei birmani scappati dal loro paese perché perseguitati.
A presto
3 risposte
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