C’era una volta una immensa valle che sembrava un presepe. Le cinquanta sfumature di verde giocavano con le altrettante sfumature di ocra, in un quadro dai colori caldi, dove solo la lunga striscia di asfalto segnava il possibile passaggio di automobili.
In una favola classica un posto così sarebbe abitato da gnomi e folletti. Qui, nell’Omo Valley ben 16 delle 86 etnie dell’Etiopia convivono più o meno serenamente. Uno dei luoghi più interessanti del mondo per conoscere popoli con una storia importante e che hanno comunque mantenuto una buona parte della loro cultura, anche se l’arrivo del turismo mordi e fuggi ha sicuramente cancellato molta di quella spontaneità che mi aspettavo. In alcune etnie lo sguardo verso il turista è stato ostile; dopo la pronuncia dell’unica parola magica che conoscono in inglese “money” ed il mio sguardo poco propenso, ti trovi di fronte occhi intrisi di quella rabbia difficile da interpretare. Naturalmente ho anche trovato comunità dolcissime dove ho sentito la gioia di uno scambio che va oltre le parole: uno dei villaggi Hamer mi ha dato un senso di pace, che non è più così comune nella nostra società.
Ma purtroppo,se devo pensare al leit motif, quel ritornello che suona in tutto l’immenso paese (l’Etiopia è il secondo stato dell’Africa per numero di abitanti), mi piange il cuore, ma è proprio quello: “soldi, soldi, soldi”. Un sostantivo che esce dalla bocca del bambino, come se fosse la prima parola che gli viene insegnata (e, tra l’altro, è l’unica che tutti conoscono in inglese), così come dal ragazzo seduto su uno sgabellino intento a sbirciare il suo cellulare, o il gruppo di signori accovacciati intorno ad un fumante caffè, mentre masticano il qat. Per questo ho deciso di dedicare poi un articolo specifico sulla popolazione etiope, che scriverò a breve. Ma ora partiamo alla scoperta di questa incredibile terra, culla di civiltà.
Per farvi capire che l’Etiopia è un paese diverso dal resto dell’Africa vi dico alcune particolarità:
1. In Etiopia il calendario è correlato ai calendari copto e giuliano, anche se ci sono alcune differenze. L’Etiopia ha 13 mesi, di cui 12 mesi di 30 giorni ciascuni ed il tredicesimo ha 5 giorni (6 giorni ogni 4 anni): per questo l’Etiopia è 7 anni indietro rispetto al calendario gregoriano. Il nuovo anno viene celebrato ogni primo settembre, del calendario etiope. Il tempo etiope è determinato dal sole. In Etiopia mezzogiorno e mezzanotte sono le sei. Quindi quando un etiope ti dice che il bar per la colazione apre alle due, significa per noi che apre alle 8 del mattino.
2 . La lingua ufficiale è l’amarico, che ha 35 lettere principale con 6 parenti ciascuno
3. Il cibo etiope per eccellenza è l’Injera, una specie di pancake (o crepe spessa). Per fare l’impasto si usa il teff, un cereale locale simile al miglio, ma con un chicco più piccolo, che viene schiacciato manualmente fino a diventare quasi farina, poi si unisce l’acqua al composto e lo si lascia fermentare per alcuni giorni.
La cottura avviene sul fuoco in una piastra tonda, larga e sottile, esattamente come si fanno le crêpes.La preparazione è lunga (tre giorni). Può essere servita con una varietà incredibile di accompagnamento, pomodori e cipolle, carne, verdure miste, legumi, pesce o addirittura, spaghetti. Il cibo etiope è esotico e decisamente piccante. Anche se chiedete « non speziato » sarà impossibile non imbattersi nel magico peperoncino verde che infiamma la gola, ma, d’altra parte, uccide i microbi. Ottimo in un paese non per igienisti! Non si usano posate, si mangia con la mano destra. Io ho provato l’Injera ovunque, diciamo che è diventato il mio pasto giornaliero, anche perché tutti i ristoranti fuori città non hanno altro. È un pasto molto economico (da meno di 1$ a 4$ nei posti più chiccosi e più turistici).
4. Caffè : una vera sorpresa, uno dei migliori al mondo! La cerimonia del caffè etiope è un rito. La tostatura dei chicchi e la preparazione del caffè bollito avvengono in un recipiente simile all’ibrik. E nell’aria, profumo d’incenso. In alcuni luoghi viene servito con pop corn.
5. La musica etiope utilizza un sistema modale pentatonico, con lunghi intervalli tra alcune note. È una musica particolare ed ha un tocco indiano, che ricorda lontanamente Bollywood.
Arrivando al confine via terra ci si trova a Moyale, un vero pot pourri di colori africani, dai ritmi lenti.
Sopra, ecco una delle tragedie dell’Etiopia. Quelle che vedete sono foglie di Khat e, purtroppo, saranno un orrendo ritornello in tutta l’Etiopia. Il Khat (o qat) è una droga legale nel paese (nell’Unione Europea è illegale). Si tratta delle foglie e germogli freschi di un arbusto sempreverde coltivato in Africa orientale. Viene spesso impacchettato in foglie di banano. Contenendo principalmente il catinone e la catina (norpseudoefedtina), gli effetti farmacologici sono quelli delle amfetamine, anche se meno potente. Masticare le foglie fresche fa rilasciare un succo i cui effetti durano parecchie ore. Stimolante del sistema nervoso, fa aumentare la pressione sanguigna, che conduce la persona ad uno stato di euforia ed eccitazione. Poiché crea forte dipendenza, a lungo termine si può cadere in depressione, irritabilità e difficoltà di dormire, oltre naturalmente ai danni al fegato, cancro alla bocca ed infarto. Quando sono stata a Gibuti, ho avuto la possibilità di parlare con una estetista, che mi ha confermato che è riuscita ad ottenere il divorzio dal primo marito (sposato a sedici anni per ingerenza delle famiglie), perché lui usava regolarmente il Khat e poiché è stato provato che provoca infertilità, (ed è anche la causa degli atti di violenza contro le donne), lei si è rivolta ad un tribunale con il consenso / supporto della famiglia ed il giudice le ha dato ragione. Purtroppo, nel paese, quasi tutti gli uomini fanno uso di Khat (oserei dire 90% nei villaggi, meno in città): è impressionante vedere anche molti professionisti (bancari, poliziotti, ecc.) che masticano continuamente.
Devo inoltre aprire una parentesi sul fatto che la maggior parte dei ragazzi con in mano il pacchetto di qat, non vogliono essere fotografati (avrò dei brutti scatti rubati perché volevo documentare il mio viaggio), e mi è stato detto che è perché loro sanno che in Europa è illegale e temono che, per questo, non arrivino più gli aiuti umanitari. Vorrei tanto essere smentita, ma purtroppo questo è quello che mi ha detto lo studente che mi ha accompagnata nel mio tour di Addis Abeba.
Anche la foto successiva mostra il khat.
Il paesaggio cambia repentinamente salendo verso la valle dell’Omo, ed i villaggi dalle strade polverose si incastrano in una cornice verdeggiante piuttosto poetica.
Tutte le etnie che vivono nella Valle dell’Omo hanno molte cose in comune: la poligamia, le scarificazioni corporali, il fatto che non conoscono la loro data di nascita, la religione animista e la subalternità delle donne (che tra l’altro devono sottoporsi all’infibulazione: la donna che lo rifiuta è completamente scartata dalla società). Gli uomini hanno un momento difficile quando devono conquistarsi l’ammissione nella società adulta, pronti a metter su famiglia. La prova di abilità consiste nel famoso « salto del toro »: devono saper camminare a piedi nudi per quattro volte sulla schiena di almeno 8 tori allineati, senza cadere. Il rito di iniziazione è severo, una caduta è un fallimento: il giovane potrà riprovarci solo un anno dopo.
Campi di mais sterminati e mandrie : un bel quadretto.
All’improvviso, uno strano movimento, qualcosa appare tra le alte piante del campo. I Banna sono una delle tante tribù della zona, lungo la strada che porta a Jinka. Hanno molte cose in comune con un’altra tribù, gli Hamer con cui condividono la lingua: in realtà pare si siano separati per ataviche dispute sui pascoli. Il bestiame è la loro ricchezza, anche se oggi sono meno nomadi, avendo iniziato a coltivare le terre intorno al fiume Omo. Sorgo, sesamo, fagioli: tutto dipende da Mamma Acqua, ed i campi vengono preparati prima della stagione delle piogge.
Le capanne sono spesso disposte a cerchio, intorno al bestiame, che rientra la sera dopo il pascolo.
Per il controllo del bestiame, la’ dove l’agricoltura ha il suo posto, i “trampolieri” osservano dall’alto i movimenti lenti.
Come gazzelle, saltellano veloci tra i pendii di una terra crepata dall’aridità. Maestri circensi estremamente vanitosi, si lasciano fotografare, a differenza di molte altre tribù, decisamente reticenti. Il corpo è dipinto di cenere bianca; non solo simbolo di bellezza, ma anche per difendersi dagli insetti.
L’importanza del bestiame (mucche, capre, pecore e cammelli ) è evidente dal fatto che nella lingua banna ci sono ben 27 parole che definiscono le sottili variazioni di colore del manto dell’animale. In alcune tribù il maschio ha ben tre nomi: il primo dato dal genitore, il secondo dato ad una capra ed il terzo ad una mucca: insomma il bestiame è, a tutti gli effetti, un componente della famiglia.
La strada procede tra le cinquanta sfumature di verde fino a Jinka (a 1450 metri).
Jinka è l’hub da dove partire alla scoperta delle tribù, così vicine e così lontane per modo di vivere: un’ immersione nel passato remoto.
L’entrata del Parco Nazionale del Mago promette molti animali: in realtà non vedremo nulla, a parte qualche scimmietta. Qualcuno dice perché è pieno giorno.
Ma io sono qui per incontrare i Mursi, gli uomini, o meglio, le donne, con il piattello. Infatti sono principalmente le donne, che, raggiunta l’adolescenza, iniziano il rito di allargamento delle labbra inferiori. Il labbro viene tagliato dalla madre: il taglio viene tenuto aperto da un tassello di legno finché la ferita non guarisce ed allungato per circa un anno, inserendo anelli sempre più grandi. L’anello è di argilla dentellato (come una ruota). Per facilitare l’inserimento del piatto vengono estratti due denti. La dimensione del labbro determina anche il valore della donna: normalmente una sposa vale oltre 30 capi di bestiame, ma un enorme labbro (a volte le donne possono addirittura farlo arrivare sopra la testa), può meritare ben 50 capi di bestiame.
Nomadi di natura, stanno cercando anche loro di diventare più stabili, anche se la loro vita è legata alla pioggia: in anni di carenza di acqua sono costretti a muoversi, per salvare il bestiame.
Il corpo dei Mursi passa attraverso la scarificazione e la pittura del corpo, oltre, naturalmente i piatti delle donne, nelle labbra e nelle orecchie. Tutto questo coincide con il rito iniziatico del passaggio dall’infanzia all’età adulta. Mi hanno raccontato che l’idea del piatto labiale (dhebi) sia nata per rendere meno attraenti le donne ai commercianti di schiavi. Oggi loro lo considerano un simbolo di bellezza: durante i balli, le ragazze in età da matrimonio, indossano il piattello, per attrarre il maschio. Il vibrare delle labbra durante la camminata è un movimento sexy.
Il maschio Mursi (come la maggior parte delle altre tribù) può avere anche quattro mogli, ma deve essere particolarmente ricco perché ognuna costa almeno 30 capi di bestiame ed un Kalashnikov (proprio per difendere il bestiame)
Molto meno socievoli di altre tribù, ed abituati ormai ad un turismo dal dollaro facile, perché posano solo davanti al Dio denaro. Tra l’altro per entrare nei villaggi si paga una tassa alla comunità che dovrebbe servire per costruire pozzi, scuole e centri medici, ma, francamente, anche la nostra guida (molto locale) ci ha detto che praticamente non va nessuno a scuola.
La vita qui è scandita dai ritmi della natura, proprio come nelle epoche antiche.
E ripartiamo per ritrovare un’altra etnia, gli Hamar o Hamer. Una lunga, polverosa strada arida, ed un giovane in mezzo alla strada, esile, alto, con un lungo bastone. Dico alla mia guida di chiedergli se vuole un passaggio.
E lui spalanca i suoi trentadue denti, bianchi come la neve, in un sorriso che riempie il mondo. È un giovane padre che sta andando a trattare il matrimonio del figlio dodicenne. Il bastone con cui viaggia è proprio il messaggio di richiesta di sposare la figlia.
La nostra guida fa parte della comunità rastafariana, che ha sede a Shashamane, città di pellegrinaggio. Nel primo dopoguerra l’imperatore etiope Ras Tafari Makkonen regalò della terra agli africani in giro per il mondo che intendevano ritornare nella loro terra natia. Ed ecco che il mondo diventa veramente piccolo: dalla Giamaica al centro dell’Etiopia. La cultura Rastafari non è solo reggae e marijuana, ma una fede molto più profonda.
Bob (nome d’arte, naturalmente, in onore di Bob Marley, il suo idolo), è un folletto sorridente, che saltella a destra e manca, un po’ per natura, ma molto anche perché ogni mezz’ora si siede, tira fuori il suo pacchettino di erba e si prepara lo spinello.
Lui parla la lingua degli Hamer, ma anche un buon inglese, imparato con le canzoni del grande artista Bob Marley.
Gli Hamer sono animisti: tutta la natura (rocce, alberi, ecc.) ha uno spirito che assume sembianza umana o animale e esercita un’influenza soprannaturale sulle persone.
Gli Hamer, a differenza dei Mursi, hanno terreni da coltivare ed ecco che i nuclei famigliari vivono più isolati. Al centro della terra da coltivare sorgono le capanne: tante capanne, tante mogli. Gli uomini dormono sulla paglia, con il loro Kalashnikov, al centro del campo, per vegliare sul prezioso bestiame e difenderlo dalle incursioni dei popoli confinanti. Per il resto molte sono le cose in comune con le altre etnie, a partire dalla prima colazione fatta di latte e sangue (alla mucca viene fatta una piccola incisione, quasi indolore).
Le donne di etnia Hamar sono belle e, come tutte le belle che sanno di esserlo, anche vanitose. Nel piccolo villaggio dove ho trascorso più tempo, dopo aver conquistato la fiducia dei due maschi (è bastato dire che erano così belli, che avrei voluto avere due guerrieri così come figli!) le donne hanno posato per me.
Gli Hamer hanno una cura dell’aspetto fisico e vantano una grande varietà di acconciature : dalle treccine spalmate di burro e ocra, ai riccioli meravigliosamente tagliati a caschetto. Gli uomini possono avere il cranio rasato con ciuffi addobbati da codini, piume, perline, o fasce colorate o ancora treccine che fungono da frangetta. La fantasia si scatena: sono molto creativi, anche nell’abbigliamento (soprattutto gli accessori).
Al mercato tribale di Keyafer sfila la nuova collezione: perline gialle, rosse e verdi sono presenti ovunque, magistralmente cucite sulle gonne fatte di pelli di animali, sulle cinture, sui bracciali, sulle collane e sulle fasce che adornano il capo. E poi conchiglie a gogo.
Le ragazze non sposate portano i capelli naturali; quando si sposano useranno l’asile (terreno rosso) per colorare i capelli ed acconciarli in splendide treccine a caschetto. A proposito di matrimonio, la prima moglie avrà una collana a due cerchi, mentre la seconda moglie aggiungerà un’ulteriore collana in legno e metallo.
Il mercato è meraviglioso, ma la gente piuttosto scontrosa e riluttante a farsi fotografare.
Mi dispiace lasciare la meravigliosa Omo Valley, avrei voluto più tempo per una immersione totale con altre etnie, ma l’Etiopia è immensa, ed anche se dedicherò a questo paese ben quarantacinque giorni, purtroppo ora devo spostarmi verso nord.
Si riparte per Arba Minch, ridente località di vacanza che si affaccia sul lago Abaya e sul lago Chamo, con una montagna che li separa. Tra le verdi colline, le mandrie si spostano tranquille, incuranti delle auto che percorrono la strada. Le capanne di paglia sono tonde con il tetto a punta ed, in alcuni casi, una sorte di cappello: non so se ha solo una funzione decorativa.
La barca scorre lenta sul lago, per non disturbare troppo i suoi abitanti. Il lago Chamo è un paradiso per gli ornitologi , tra aquile fotogeniche e grossi uccelli svolazzanti che si spostano a stormi su un lago pescoso (è famoso un pesce di oltre 105kg pescato nel lago e donato, pulito, pronto per la cottura all’Imperatore Haile’ Sellasie’).
A proposito di pescatori, la caverna sull’ isolotto in mezzo al lago è la loro casa provvisoria: il tempo di riempire la barca di pesce e tornare a casa.
Ma il lago è famoso anche per altra fauna: gli ippopotami sbuffano rumorosi. Uno degli animali giganti più goffi, in realtà è abilissimo a portare la sua enorme testa fuori dall’acqua, respirare e immergersi nuovamente in un lampo.
E finalmente ci sono loro, i “paciosi” coccodrilli che si crogiolano al sole. Enormi creature dall’aspetto arcaico.
La zona dei laghi comprende anche il bel lago Langano, ed il nostro camping in collina, tra ridenti valli verdeggianti è spettacolare, all’alba, quando i colori si accendono tra il silenzio.
Si riparte per la città, lentamente, perché le strade sono piene di buche e di mandrie che invadono le corsie.
Addis Abeba e’ la classica capitale africana, dove il moderno contrasta con il vecchio, ma soprattutto carica di quella disperazione umana che fa male.
La miseria è sempre brutta, ma quando ti appare accanto alla ricchezza, scusate, ma il mio cervello si infiamma. La bella residenza delle alte gerarchie ecclesiastiche (e loro stessi, paffuti e sorridenti in uno scambio di saluti) stona con le donne sedute di fronte, su quel marciapiede grigio e freddo come il loro sguardo, avvolte in un mantello di niente, e nella disperata speranza di qualche spicciolo per la sopravvivenza.
Il giro in città mostra la parte moderna,
compresa la bella biblioteca,
le chiese
E naturalmente il mercato, immenso.
Ad Addis Abeba c’è anche un Museo Nazionale famosissimo perché qui è custodito lo scheletro di Lucy, l’australopiteco di tre milioni e mezzo di anni fa.
Oggi abbiamo anche avuto la fortuna di vedere la sfilata degli assi etiopi dell’atletica, che sono tornati vittoriosi dalle ultime competizioni americane. Ed ecco che sfilano, per primi, Tamrat Tolla e Gudaf Tsegay, medaglie d’oro.
Vi lascio per ora, con alcune foto scattate in città, e vi aspetto nella seconda parte della mia Etiopia, dalla fotogenica Harare, alla curiosa Dancalia, alla spiritualità di Lalibela, fino ai confini con il Sudan : un’avventura straordinaria.
E dei brevi filmati con le danze locali (aprire il file)
e per finire, la passerella degli attori di questa puntata: