Una lunga striscia di asfalto, piuttosto nuova, in mezzo ad un brutto deserto di terra e pietre. Un paesaggio quasi lunare, ma decisamente poco poetico. La nostra auto corre, veloce, ed altrettanto velocemente inchioda, davanti all’ennesimo ed ennesimo ed ennesimo ancora, controllo. Un’estenuante, stressante, logorante interrogatorio. In mezzo al niente spuntano come funghi i controlli della polizia, dell’esercito, dei militari, delle forze dell’ordine, di non so più cosa. Sembra un gioco, una caccia al tesoro per rallentare ogni movimento. Oltre quattrocento chilometri ci separano da Baghdad, considerando che la strada è abbastanza dritta, spesso a tre corsie, si potrebbe fare in poche ore, ma tutto è così aleatorio. Il mio passaporto incuriosisce, o chissà! Ogni pochi chilometri lo stesso rituale: “da dove arrivate? dove andate? La signora di dov’è? Documenti”. Anche solo l’apertura del passaporto per loro è strana, così come la ricerca del visto. Si sa che nel mondo arabo la lettura è all’opposto nostro, quindi, spesso, il militare di turno non trova la mia foto ed inizia a sfogliare tutte le pagine del mio passaporto partendo dalla fine. A metà si arrende, parte e va da un altro, ed un altro ancora, e telefona…non so dove. Non si deve scendere dall’auto, solo attendere, ed attendere, senza troppe domande. INSHALLAH!
Quando finalmente siamo vicini alla città, è come se avessi un enorme fardello sulle mie spalle, sento nell’aria quell’odore acre di bruciato: lo so che è solo suggestione, ma la luce soffusa di un giorno normale non mi da’ pace. Il cielo è plumbeo, squartato da lattiginose nuvole bianco sporco.
Il tempo sembra immobile tra le macerie di Mosul. Il quartiere di Al-Mansurieh è fatiscente, e non riesco a nascondere il mio malessere camminando sulle rovine dove migliaia di cadaveri hanno appestato l’aria per mesi.
Ho di fronte la visione di un quadro in bianco e nero, caduto per terra dalla parete e sporcato da graffi di vernice. Tutto qui sembra irreale, anche il silenzio.
L’antica capitale dell’organizzazione dello Stato Islamico (IS) dal 2014 al 2017 è un film in bianco e nero che urla la libertà. Una grande zavorra per noi occidentali che sgraniamo gli occhi davanti ad una normalità : i bambini sono bambini in tutto il mondo.
Allegri, gioiosi, saltellano con serenità sulle semplici giostre posate in mezzo alle rovine. Sembra un altro quadro, questa volta profuma di vita.
Ma partiamo dall’inizio. Arrivavo dal tranquillo Kurdistan, con il mio bel visto d’ingresso che, purtroppo, vale solo lì. E quindi ho dovuto prendere il volo Erbil-Baghdad per entrare nell’Iraq ufficiale. Alle dieci di sera, i passeggeri del volo, principalmente iracheni, sfilano veloci ai controlli del passaporto: dopo poco più di quindici minuti ci troviamo in due, ad attendere istruzioni. Non ci sono altri turisti e neanche più locali. I nostri passaporti e la richiesta del visto sono nelle mani di due addetti e noi restiamo lì, seduti su quelle panchine, in trepidante attesa. Silenzio totale, nessuno intorno, neanche una toelette aperta: novanta minuti di niente. Finalmente arriva lui, con un sorriso lieve: “benvenuti in 🇮🇶 Iraq!”. Percorriamo il lungo corridoio deserto, con i nostri passi che rimbombano, e siamo all’uscita. Un ragazzo in divisa ci viene incontro e pronuncia il mio nome. Lo seguo, e chiedo dov’è Hayder. Mi dice : “lo vedrai tra poco”. Saliamo sul taxi e partiamo. Pochi chilometri e ci dobbiamo fermare per l’ennesimo minuzioso controllo dei documenti ma anche dei bagagli. Solo allora scopro che questa è la vera uscita dell’aeroporto, e che qui possono accedere solo ed esclusivamente i taxi ed addetti ufficiali, o i veicoli autorizzati. Me ne accorgerò meglio al ritorno quando i controlli saranno ben 4: documenti, ispezione manuale, compreso controllo calzature (oltre le scarpe anche i calzini!), bagaglio, cani antidroga. Mi verrà poi spiegato che questo per evitare attacchi terroristici all’aeroporto, dove normalmente ci sono molte persone.
Hayder aspetta con l’autista e la sua auto a pochi chilometri, su quella strada a più corsie senza illuminazione, che, nel buio della notte, porta verso il centro città. Mi chiederà se il volo è andato bene o ha fatto strani giri. Francamente non ho notato nulla, forse perché era sera ho sonnecchiato…. “La traiettoria non è mai la stessa, per ragioni di sicurezza….e se arrivassero improvvisi missili?”.
Viaggiando in Iraq sembra ci siano più militari di persone: varie milizie controllano aree di competenza, che devono garantire la sicurezza di quel preciso territorio e lo fanno con quell’orgoglio e caparbietà, che caratterizza chi deve far vedere che appartiene ad un’organizzazione in grado di gestire la propria zona. I pochi turisti sono pacchetti che passano da una mano all’altra, ma non si deve pensare al peggio: vi garantisco che ho trovato molte persone estremamente gentili e premurose.
Ed ora rispondo subito a chi mi chiede: ma perché andare in Iraq? Oltre al fatto che voglio visitare tutte le nazioni del mondo dico che Semplicemente perché questa è la vera culla della civiltà. Come si fa a non pensare alle mille e una notte, alle meraviglie di Babilonia, alla torre di Babele o a Bassora, la “Venezia d’Oriente”, incrocio di culture e religioni? Tra le reminiscenze scolastiche, il Tigri, l’Eufrate e la Mesopotamia hanno sicuramente un posto di rilievo.
Ma in realtà l’Iraq è un giovincello nella storia, essendo nato nel 1920. Nel gioco post prima guerra mondiale i vincitori, Francia e Inghilterra dovettero cedere dei territori. In particolare agli Arabi. I due figli del leader degli Hashemite (tribù arabe) ebbero in “omaggio” una parte delle due nuove nazioni, Iraq e Giordania. Apparentemente l’Iraq era più interessante (la Giordania, pur avendo meraviglie come Petra, è tanto deserto).
L’Iraq aveva un porto strategico (Bassora) che serviva da collegamento tra l’Inghilterra e la sua colonia più importante, l’India. Nato come protettorato nel 1920, divenne indipendente nel 1932. È importante ricordare che all’incirca nel mezzo del cammin, nel 1927, verrà scoperto il petrolio.
Ma non è tutto oro quello che luccica. Innanzitutto per la posizione, in mezzo a due grandi nazioni, come l’Iran e l’Arabia Saudita, che puntano entrambe ad essere alla testa del mondo islamico.
Le vicissitudini del paese sono varie: un breve periodo monarchico (finito nel 1958), ed il passaggio della supremazia delle superpotenze, con la discesa di Francia ed Inghilterra e la salita dei Sovietici e degli Americani. L’Iraq guardò di buon occhio il comunismo, fino al 1968, quando il colpo di stato di un signore del partito ba’th (rinascita), andò a buon fine. Il leader del partito era un certo Saddam Hussein, laico, “teoricamente” perfetto per la convivenza in un paese che aveva varie religioni. Dopo un periodo da Vicepresidente, nel 1979 divenne “l’Uomo” dell’Iraq. Osannato inizialmente : anche grazie al petrolio, fece riforme importanti e migliorò molto la sanità. Ma la sete del potere a senso unico ha spesso una seconda faccia: chi era contro di lui o era considerato poco affidabile, veniva “allontanato “ per sempre. Ed ecco che nasce il Dittatore con pieni poteri.
La storia cambia presto con l’attacco di Saddam all’Iran, dando origine ad una delle guerre « moderne » più feroci. Lui sembrava l’eroe, che attaccava un altro capo assoluto, quel Khomeini che nella Repubblica Islamica dell’Iran voleva esportare il modello del clero sciita nel mondo e che pensava che il vicino Iraq, terra di molti sciiti, fosse il primo passo. Apro una parentesi per precisare alcune cose che riguardano la religione. Dei mussulmani nel mondo solo una parte (circa il 20%) è Araba. (Un chiaro esempio è l’Indonesia, che ha oltre 200 milioni di mussulmani). Per cui possiamo dire che in generale gli Arabi sono mussulmani, ma non è detto che un mussulmano sia arabo, anzi spesso non è così. A proposito di sciiti e sunniti, poi , è importantissimo, parlando dell’Iraq, precisare che i Curdi sono sunniti, ma non sono Arabi! Lo so che è tutto molto complicato, ma credo sia importante questa premessa proprio per capire la complessità non solo dell’Iraq, ma anche dei paesi intorno.
Tornando a Saddam Hussein, in quel periodo si trovo’ appoggiato da gran parte del mondo, compreso gli USA: tutti erano contro l’Iran. La pace del 1988 registro’ un milione di morti.
In quello stesso periodo si ricorda anche il terribile genocidio dei Curdi, che, trovandosi a cavallo tra Iran ed Iraq, cercavano la loro indipendenza. I Curdi hanno una lingua indo-europea, non araba. L’Iran cerco’ di attirarli a se, e questo alimentò ancora di più l’ira di Saddam che stermino’ buona parte della popolazione tra il 1986 ed il 1988. Halabja subì un attacco chimico di immane violenza. Un paese davvero martoriato da troppe vicissitudini.
Penso che questa introduzione fosse necessaria per “entrare “ in un paese così complesso.
Ora finalmente inizio l’avventura sul suolo iracheno.
L’antica Babilonia era una città da mille e una notte, un luogo di sogni e realtà.
E, come nella fiabe classiche, tutto era colorato, a partire dalle mura, di quel blu dipinto di blu. Allegri disegni giallo oro brillavano sullo sfondo e gettavano l’occhio su quel pavimento di lastre bianche come la neve.
Oggi purtroppo di questo tesoro resta solo la porta originale conservata in un museo di Berlino. Qui, l’entrata nel bel mondo che non c’è più, è una copia.
Le mura sono state ricostruite anche se alla base sopravvivono, da 2600 anni, quelle originali.
L’interno è un labirinto fatto di corridoi che scoraggiano l’invasione da parte del nemico.
A poche centinaia di metri dall’antica Babilonia, su una collina, tra le nuvole ocra di una tempesta di sabbia, sembra un miraggio.
Nel 1991 Saddam Hussein fece costruire qui uno dei tanti palazzi: malgrado sia stato abbandonato, rimane una delle attrazioni turistiche più interessanti. A partire da quella posizione dominante: dal suo cortile si ammira il complesso di Babilonia, quasi come se fosse stato costruito prima, per un controllo totale della città. Ma la grandezza appare anche nelle sale, che sopravvivono ai brutti sfregi perpetuati negli anni.
Meraviglioso anche un dipinto sul soffitto.
Lui, Saddam Hussein sedeva lì’ e aspettava il saluto dei sudditi.
E poi, torno nel meraviglioso cortile del palazzo con vista : “davanti ai fiumi di Babilonia, lì ci siamo seduti e abbiamo pianto, ricordando Zion” . Una delle più belle canzoni della mia adolescenza, anno 1978, Boney M « Rivers of Babylon »
Najaf è una delle città sante dell’Iraq, un luogo di pellegrinaggio continuo (pensate che solo La Mecca e Medina raccolgono più pellegrini). L’ingresso in città sembra una di quelle pellicole rimaste in cantina, che trasudano anni di polvere ed intemperie. La tempesta di sabbia dipinge il cielo e rende l’aria pesante. Ma la gente viene qui perché Najaf è il luogo di culto degli sciiti. A Najaf è sepolto Ali, cugino e genero del profeta Maometto, perché ha sposato la figlia del Profeta, Fatima. Non avendo avuto figli maschi, alla sua morte i mussulmani si divisero in due parti per decidere la degna successione di Maometto: i sunniti appoggiavano Abu Bakr, padre di Aisha, la moglie di Maometto, mentre gli sciiti appoggiavano l’Imam Ali, che oggi è sepolto a Najaf, diventata la città sacra per eccellenza dei sciiti, con grandiose moschee e mausolei di immane bellezza. I fedeli rendono omaggio al mausoleo dell’Imam Ali e pregano nelle grandi sale ornate di specchi. In questo momento ci sono molti iraniani in pellegrinaggio.
Mentre in gran parte del resto dell’Iraq si possono indossare abiti occidentali (anche se sempre molto casti), qui è tassativo l’abaya, o comunque un abito lungo ai piedi (con maniche lunghe) ed il capo tassativamente coperto.
Ma a Najaf c’è un’altro luogo incredibile: il più grande cimitero del mondo. Sei chilometri quadrati contengono oltre sei milioni di corpi ed ogni sciita vorrebbe essere sepolto qui, tra tombe maestose e semplici mucchi di terra, in questo luogo che è chiamato anche la “Valle della pace” e accoglie “le anime buone in attesa del giorno del giudizio”. Brutte ghirlande di fiori di plastica, dai colori sbiaditi dal sole, poster del defunto ingialliti dal tempo, bidoni di acqua di rose: oltre quindici milioni di persone all’anno vengono a rendere omaggio ai fortunati che sono sepolti in questo cimitero.
la tempesta di sabbia improvvisa accentua la sua forza rendendo il luogo ancora più incisivo.
Si riparte verso il sud, verso Nassirya, nome tristemente famoso per noi italiani, perché nell’attentato kamikaze del 2003, persero la vita 19 connazionali. Sulla strada ci sono due meravigliose soste:
La prima è un sito archeologico, grandioso luogo di culto dell’età del bronzo, edificato da un re sumero, restaurato più volte nel tempo. Zigurrat di Ut è una delle zigurrat (letteralmente “casa dalle fondamenta imponenti”) sumere meglio conservate (risale al III millennio a.c.).
Dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 2016, La Grande Ziggurat era una massiccia costruzione in mattoni di fango, al contempo un luogo sacro ed un grande magazzino per le scorte di cibo. La struttura ha tre terrazze a scalini collegate da gradinate: un’ampia rampa d’accesso le unisce alla base. Ecco perché sono anche chiamate le prime piramidi della Mesopotamia. Il tempio era dedicato al Dio della Luna. La zona archeologica si trova in mezzo ad un’area desertica, con vicino una base militare e nient’altro, quindi visitabile solo con un buon conoscitore della zona.
Poco lontano da Nassiriya c’è un luogo incredibile: le Maadans erano il più grande ecosistema di paludi del Medio Oriente. La Mesopotamia, la “mezzaluna fertile”, quel luogo dove il Tigri e l’Eufrate si fondono in un unico fiume. Questo era un luogo di sogno, identificato con l’Eden biblico dagli antichi popoli mediterranei, chiamato anche “il paradiso terrestre” naturale, e qui vivevano oltre settecentomila persone, dedite alla pesca, all’agricoltura, alla coltivazione della canna da zucchero e all’allevamento dei bufali. Come se non bastasse, negli anni ‘70 ci fu l’incredibile scoperta di giacimenti petroliferi. Questa zona molto strategica fu duramente colpita prima dalla guerra Iran-Iraq, e poi l’invasione anglo-americana. Un esempio è durante il regime di Saddam Hussein, quando, pensando che i ribelli si nascondessero tra i fitti canneti, il dittatore ordino’ di prosciugare le paludi. Gran parte della popolazione fuggi’ nelle città e l’Eden rimase vuoto. Oggi restano alcune capanne di canne pressate e papiri, ricostruite su zolle di erba galleggianti. Piccole cattedrali dalla forma cilindrica e struttura ad arco, bellissime anche vuote. Si sta tendando di tornare all’origine, ma, sinora meno del 40% del territorio è stato recuperato.
La lunga canoa scorre lieve, addentrandosi tra canneti più o meno fitti e canali che si incrociano in un vero labirinto. Ogni tanto si incontrano donne che lavano i panni e ragazzini che pescano o raccolgono le canne o, semplicemente, si tuffano. I Madan sono arabi di fede sciita e dalla pelle scura, bruciata dal sole.
Ali’ è molto simpatico, felice di vedere due turisti dopo anni di isolamento. Ed è ancora più contento quando mi esalto a seguire con lo sguardo i bufali che sguazzano intorno a noi.
E poi ci porta a casa sua e prepara un delizioso pesce alla griglia.
I villaggi della provincia di Dhi Qar sono molto poveri.
Arriviamo a Al Qurnah, nel governatorato di Bassora, dove il Tigri e l’Eufrate si congiungono.
Bassora dovrebbe essere ricca, considerando che oltre il 5% della produzione mondiale del petrolio proviene proprio da qui. In realtà , la seconda città dell’Iraq, pare abbia oggi oltre il 40% della popolazione sotto la soglia di povertà (allarme lanciato dall’alto commissariato Onu per i diritti umani): una situazione tragica per quella che è considerata la capitale economica del paese.
Lungo la corniche, il luogo di passeggio serale delle famiglie, si vede il super yacht di 82 metri, Basrah Breeze, appartenuto a Saddam Hussein. Costruito in Danimarca, ha 14 suites (per 28 ospiti), bagni in marmo con rubinetti d’oro, intarsi in mogano, pregiati tappeti colorati; oltre a camere presidenziali, ospita addirittura una clinica privata ed un sottomarino, per eventuali fughe strategiche. Forse un giorno diventerà un hotel di lusso?
Nella “La Venezia dell’est”, così era chiamata Bassora, per via dei canali che percorrevano la città dove Ebrei, Cristiani e Mussulmani convivevano serenamente, oggi restano alcune case nella città vecchia: splendide costruzioni di legno intarsiato che ricordano un lontano periodo di serenità ed opulenza.
Il resto della città è piuttosto desolante
Si riparte per il nord, con il solito estenuante fiato sospeso per i tanti, tantissimi, troppi controlli. Postazioni militari ovunque, anche in mezzo a quella striscia di deserto che non sa di vita.
Lungo la strada si vedono i giacimenti dell’oro nero:
Falluja è un nome che fa rabbrividire: si parla di strage nascosta. L’utilizzazione del fosforo bianco nei bombardamenti americani su Falluja durante l’offensiva del novembre 2004 e l’uso della violenza contro i civili da parte delle forze militari statunitensi hanno fatto il giro del mondo. Falluja viene considerata ufficialmente liberata dall’esercito iracheno, il 27 giugno 2016. La guerra ha distrutto circa il 60% degli edifici, provocando un alto numero di vittime. Per questo viene chiamata la Città Martire. Il massacro di Falluja ha avuto conseguenze peggiori persino di Hiroshima. Uno studio precisa che la percentuale dei tumori è cresciuta di 4 volte (12 volte nei bambini) così come sono aumentate la leucemia, la mortalità infantile e le malformazioni infantili. Distruzione e tristezza, ma voglio leggere un po’ di speranza negli occhi dei bambini che guardano incuriositi chi c’è in quell’auto che si infila tra le strade dissestate.
Una nota decisamente piacevole e’ il ristorante Al Badya, dove, appena ti siedi, arrivano camerieri con piattini pieni di delicatezze che inondano la tavola. Verdure crude e cotte, hummus, tabuleh, ceci, fagioli, vari tipi di riso (bianco, al pomodoro, allo zafferano, con l’uvetta ed i pinoli), da soli sembrerebbero un pasto unico. In realtà sono il contorno del piatto principale, un morbido agnello con mandorle, uno dei migliori mai mangiato in vita mia.
Tornando verso la capitale c’è un altro sito archeologico importante: Dur Kurigalzu, l’odierna Aqar Quf è stata la città della residenza reale degli ultimi re Cassiti.
Bagdad è una grande capitale e, come tale, caotica ed irriverente. Il bellissimo Monumento ai Martiri, il Martyr’s Memorial o monumento di Al-Shaheed, è dedicato ai soldati iracheni, caduti nella guerra Iran-Iraq. Progettato dall’architetto iracheno Saman Kamal e dall’artista-scultore Ismail Fatah Al Turk, è stato inaugurato nel 1983. In mezzo ad un lago artificiale sorge una piattaforma circolare di 190 metri, che sorregge una cupola turchese di 40 metri di altezza. Le due metà della cupola sono spostate e divise da una fiamma eterna: due splendidi gusci in acciaio zincato con piastrelle in ceramica turchese smaltata preformata in cemento armato rinforzato con fibra di carbonio. Il monumento si trova sul lato orientale del fiume Tigri.
Non amo molto le città e, come se fosse un odio reciproco, Bagdad mi accoglie con l’ennesima tempesta di sabbia: cielo plumbeo, militari ovunque, nessun turista.
È venerdì, il giorno del mercato (anche quello degli uccelli: gli iracheni amano avere uccellini in casa, in gabbia), molte strade sono chiuse al traffico e orde di persone vanno avanti e indietro alla ricerca dell’affare. Il mercato è immenso, ma, come potete vedere dalle foto, principalmente frequentato da maschi. Credo di aver incrociato tre donne (naturalmente sempre accompagnate da un uomo).
Al Mustansiriya Madrasa è la prima scuola islamica
Nella vecchia Bagdad, tra palazzi distrutti sono risorti alcuni luoghi diventati cult.
Tra questi un piccolo bar che produce un’ottima bevanda naturale di uva. Alle pareti foto storiche di Saddam .
E poi, i caffè storici, vere opere d’arte
La statua in onore di Al-Mutanabbi, il “sedicente profeta”, uno dei massimi esponenti della poesia araba classica
E qualche scatto per strada
Lungo la strada bei graffiti adornano brutte mura: molti i messaggi
Procedendo verso nord si arriva in un’altra città archeologica protetta dall’Unesco, Samarra. La città è controllata da milizie non governative, e quindi di non facile accesso per i turisti. Ma devo ammettere che Hayder è un ottimo Fixer che, destreggiandosi perfettamente con i ben quattro checkpoint della zona, mi ha portata davanti alla Grande Moschea.
Nel 690 a.c. il re assiro Sennacherib costruì la fortezza Sur-marrati, nome di origine aramaica. Per un lungo periodo capitale califfale, fino all’892 quando il califfo dell’epoca decise di tornare a Bagdad. Della grande Moschea sopravvive solo il minareto, Malwiyya, che significa spirale, proprio per la sua conformazione conica in ricordo / imitazione della torre di Babele, simbolo di orgoglio del genere umano. Alta 52 metri con una circonferenza massima di 33 metri è stata costruita in mattoni cotti e gesso.
L’iconico monumento è presente anche sulla banconota da 250 dinari.
Proseguendo ancora a nord si passa accanto al Castello di Qasr al Ashaq : purtroppo è in arrivo una forte tempesta di sabbia e lo vediamo solo da lontano.
A circa 80 km da Mosul si trova un’altra chicca, patrimonio dell’umanità dell’Unesco, Hatra, fondata dalla dinastia seleucide nel III secolo a.c. Importantissima perché divenne capitale del primo regno arabo nella catena di città che andavano da Hatra a nord-est attraverso Palmira, Baalbek e Petra a Sud-ovest. È considerata una delle leggendarie dieci città perdute di Tayyab. Una curiosità: il sito venne usato per le riprese della scena iniziale del film l’Esorcista del 1973.
Molte statue sono state distrutte dall’Isis, usate come bersaglio negli allenamenti: i proiettili sono ben visibili.
Saddam ha inciso ovunque il suo nome.
Una visita decisamente impressionante sia perché anche qui eravamo solo in due, sia perché era in corso l’ennesima tempesta di sabbia che rendeva l’atmosfera ancora più drammatica.
Ed eccomi alla cosiddetta chiusura del cerchio.
A Mosul i jihadisti minacciati, con poche vie di fuga, hanno distrutto con bombe la moschea Al-Nouri, nella speranza di scatenare l’inferno da parte del popolo, avendo accusato la coalizione internazionale di tale scempio. Ma non è successo nulla. Oggi l’Unesco ha a cuore la ricostruzione di uno dei simboli della distruzione. In realtà oggi c’è solo un recinto che non si può oltrepassare. Ma mi hanno detto che un team di architetti egiziani ha vinto la gara d’appalto (sono arrivati ben 123 progetti da tutto il mondo). E qualcuno blatera perché gli architetti iracheni non hanno avuto possibilità di partecipare alla ricostruzione della loro moschea.
Mosul era una delle roccaforti dell’Isis fino al 2017, quando finalmente l’esercito iracheno, americano e curdo la liberarono.
Le anime perdute di Mosul sono qui, non credo serva voce narrante per spiegare queste immagini.
E poi il Bash Tapia Castle, del dodicesimo secolo distrutto dall’Isis nel 2015
E ancora distruzione
Resilienza, sopravvivenza, capacità di adattamento: parole che potrebbero essere nate qui. La gente ha ripreso a vivere.
Cerco la rinascita intorno, mentre sento lo scricchiolio dei pezzi di cemento che si frantumano sotto le mie suole: percorrere l’area fatiscente del quartiere di Al-Mansurieh mette a disagio. Brandelli di una vita che fu …. Rincorro una donna, avvolta nel suo burqa integrale nero come la notte, che qui sembra eterna, ma la vedo scomparire dietro cumuli di macerie.
E allora mi siedo, cercando di pensare al niente …che qui esiste.
E poi riparto finché non mi trovo di fronte ad un caffè letterario: dove c’erano macerie è sorto un meraviglioso ritrovo di giovani e meno giovani, dove socializzare e guardare avanti. Una bella visione del futuro, in una città, Mosul, che è ancora in ginocchio, e stenta a dimenticare la terribile violenza che l’ha scossa per anni.
E poi la piazza, dove è stata messa la bandiera della liberazione, dove gruppi di giovanissimi si ritrovano, perché sono loro il futuro.
A questo punto, non mi resta che dire:
È stato strano dormire in una tranquillità surreale.
E mi ritrovo a ripercorrere la striscia d’asfalto e d’abbandono che mi riporta a Bagdad, con negli occhi la polvere della tempesta di sabbia, che cerca di nascondere le immagini agghiaccianti di ruggine, vetri rotti, carcasse di automobili, plastica bruciata e profonda desolazione.
Un ultimo pranzo, stavolta in un luogo dove sembra che non sia mai successo nulla. Si sa, gli Hotel cinque stelle sono termometri asettici. Mi siedo al Babylon Rotana Hotel ed ordino l’ultimo pasto prima di partire.
Qui tutto sembra normale, l’opulenza sfila tra rombanti motociclette personalizzate, auto d’epoca con lifting d’autore e belle vetture nuove che brillano su pavimenti di pregiato marmo di Carrara.
Fuori dalla “gabbia” la security sembra instancabile.
Dentro, è tutto così finto: anche la brutta copia della entrata di Babilonia, dove gli sposi posano dopo un si che dovrebbe rappresentare il futuro!
E mi ritorna in mente il ritornello dei Boney M… “by the river of Babylon”
“Davanti ai fiumi di Babilonia, lì ci siamo seduti
abbiamo pianto, ricordando Zion
“Davanti ai fiumi di Babilonia, lì ci siamo seduti
abbiamo pianto, ricordando Zion
quango i malvagi
ci hanno portato via, prigionieri
chiedendoci una canzone
Ma adesso come potremmo cantare la canzone del Signore in una terra straniera?
quando i malvagi
ci hanno portato via, prigionieri
chiedendoci una canzone
Ma adesso come potremmo cantare la canzone del Signore in una terra straniera?
Lascia che le parole delle nostre bocche e la meditazione dei nostri cuori
siano sufficienti davanti al tuo cospetto Signore, qui stasera
lascia che le parole delle nostre bocchee la meditazione dei nostri cuori
siano sufficienti davanti al tuo cospetto Signore, qui stasera
“Davanti ai fiumi di Babilonia, lì ci siamo seduti”
Una risposta
Ho imparato più cose leggendo questo articolo che negli anni di scuola! Molto interessante