Mali

 

Da piccola sognavo Timbuktu : è stata in assoluto la prima città che ho conosciuto, attraverso quei fumetti che aspettavo di leggere per lasciar volare la fantasia. 

La “Regina del deserto”: il nome profumava di tempeste di sabbia, di  immagini di carovane sfocate, di esplorazioni esotiche, di silenzi parlanti e di ricchezze da mille e una notte. Un impero così potente che nel 1600 era il crocevia di commerci fiorenti con il re Niger che fungeva da collegamento: avorio, oro e spezie, ma anche schiavi, diventavano merce di scambio con il sale. Un proverbio sudanese sosteneva che mentre il sale proveniva dal Nord ed il denaro dai paesi dei bianchi, la parola di Dio ed il sapere arrivavano da Timbuktu. Oggi il sogno è infranto. Disordini tra i Tuareg ed il governo e quell’Isis orrendamente spietato l’hanno messa in ginocchio. La ricchezza della città è sparita già da un po’, con l’abbandono dei palazzi sfarzosi e delle moschee diventate anche prede di quella sabbia sahariana che ingoia tutto. Ma il fascino di questo lento declino stava ancora lì, aggrappato al mito e la gente partiva in un faticoso viaggio polveroso per dire “io c’ero”. Oggi avrei tanto voluto percorrere quei, in fondo, pochi chilometri, che mi separano dal mito di gioventù. Sono venuta fino qui, con tanta e tanta organizzazione: sappiamo che oggi non è facile viaggiare e, nel rispetto mio e degli altri, ho dovuto affrontare un lungo iter, fatto di procedure complesse e attenzioni costanti che non ammettono distrazioni, compresa la scorta, fedele alleata nei giorni in cui abbiamo attraversato regioni « calde ». Ma, dopo tanta fatica, purtroppo la “Regina” non è avvicinabile: i ribelli sono ancora lì’, a  rivivere quell’epoca buia dove la sharia è di rigore, con la legalizzazione di punizioni corporali (le coppie non sposate sono frustate in pubblico e si può arrivare fino alla  lapidazione a morte per gli omosessuali), la musica è bandita e la libertà un mero e triste sogno.

Ma io non demordo, oggi ho conosciuto una parte di quell’incantevole paese che mi ha accolta in un abbraccio così caloroso da farmi innamorare e, anche se non potrò vedere Timbuktu ora, tornerò. 

Dopo l’ultimo viaggio in Africa di 7 mesi avevo preso le distanze da questo continente così unico. L’Africa non è mai indifferente, ma scatena i sentimenti più intensi, la ami o la odi. Io ho provato entrambi, l’ho amata perdutamente, come un amore passionale, di quelli che ti fanno battere il cuore e l’ho odiata follemente, con quella rabbia distruttiva che vorrebbe solo dimenticare e cancellare. 

Il Mali è un colpo di fulmine, uno sguardo ricambiato ed i brividi che ti scuotono. Un amore che nasce al primo contatto con questa gente che cerca solo un po’ di pace. Siamo i primi turisti da tempo, e non ne troveremo altri in nove intensi giorni di viaggio e quasi duemila chilometri percorsi, tra sorrisi e saluti affettuosi e anche malinconici. Ho letto un po’ di speranza nei loro occhi, come se la nostra presenza fosse un piccolo spiraglio di luce in quel buio che li circonda da anni, un quadro sociopolitico dove i conflitti etnici sono all’ordine del giorno e le cellule jihadiste sul punto di realizzare attentati nel paese.

Ed eccomi pronta per una full immersion nei tanti volti di una vita quotidiana ancora lontana dalla nostra, con le sfumature di bordeaux, marrone, arancio e giallo dei villaggi, che sembrano usciti da un racconto di Lawrence d’Arabia e le piroghe con macchie vivaci di colori brillanti. Un mosaico di etnie (circa 60 mondi paralleli con ancestrali segreti), da quei Dogon inseguiti da curiosi studiosi ed etnologi che faticano a carpire il loro elevato concetto dell’universo, ai Bambara (gruppo etnico dominante. Per questo, anche se la lingua ufficiale del Mali è il francese, il Bambara è la più utilizzata, parlata da oltre il 50% della popolazione), ai Bozo, pescatori per eccellenza, che vivono principalmente sui fiumi Niger e Bani, ai Peuls (discendenti da nomadi di pelle chiara), fino ai Tuareg, i Principi del nomadismo. 

E poi i Mandingo (Malinke) con i carismatici griots, cantastorie che tramandano  di generazione  in generazione la tradizione orale millenaria con il potente suono delle percussioni: forti radici che ne fanno la patria di quel blues che mischia lo scorrere del Niger al vento del deserto. Gli strumenti tradizionali sono la kora, il balafon, lo ngoni, il djembe’.


 

Molti artisti sono diventati star africane e alcuni anche internazionali, dalla coppia (non vedente) Amadou e Marian Bagayogo, ad Ali Farka Toure’ (2 Grammy Awards), a Salif Keita (cantante albino), fino a Mokobe’ che ha portato in Francia le sue radici attraverso un moderno e vagamente nostalgico rap dalla profonda impronta africana, senza dimenticare il blues Tuareg dei Tinariwen. E poi ci sarà Abdoulaye, la nostra guida Tuareg, che mi dirà: io ho conosciuto un artista italiano a Timbuktu, e mi reciterà  in perfetto italiano, (e saranno le uniche parole che conosce nella nostra lingua) il testo della canzone che Jovanotti  ha scritto:

“Un tramonto a testa in giù Australe Lungo il Niger Timbuktu Appare Sotto un cielo di caucciù Perduto Come un granello di sale in un mare Salato”.

 

Si parte da Bamako, tipica capitale africana senza fronzoli, senza bellezza. Per noi occidentali un caotico mondo di polvere ed isteria, dove non si possono permettere distrazioni. L’occhio vigile che cerca un passaggio tra clacson assordanti ed ogni tipo di mezzo che cerca un vano di accesso. Attraversare la strade diventa una roulette russa.

Nel primo semestre del 1860 la Repubblica Sudanese e il Senegal proclamarono la loro indipendenza dalla Francia con il nome di Federazione del Mali, ma pochi mesi dopo, il 22 settembre 1860 il Senegal si separò e la Repubblica Sudanese prese l’attuale nome di Mali. Il primo presidente, Modibo Keita instaurò una sorta di regime marxista che piegò l’economia del paese per ben 8 anni. Colpi di stato si susseguiranno fino alle prime elezioni democratiche del 1992. Purtroppo dal 2008 iniziano le forti tensioni tra il gruppo etnico del Nord dei Tuareg e le etnie maggioritarie del paese, che porteranno alla guerra civile. I Tuareg si sono alleati con gruppi di fondamentalisti islamici (Al-Qa’ida). Nel 2013 un intervento aereo della Francia permette di riprendere alcune città che erano cadute in mano ai fondamentalisti islamici, dando quella speranza tanto attesa, con elezioni presidenziali che hanno portato Ibrahim Boubacar Keita al capo del governo. Ma il 18 agosto 2020 un nuovo colpo di stato che destituisce il presidente ed il suo entourage. La giunta militare si insedia in attesa di nuove elezioni.

Un paese complesso, dove il tasso di alfabetizzazione è del 30% (35% per gli uomini e 20% per le donne), diviso in 10 regioni, alcune, come quelle a Nord, minacciate da banditismo transfrontaliero e terrorismo, con un esercito sottopagato (abbiamo avuto la scorta per 4 giorni ed ho avuto la possibilità  di chiacchierare con loro, carpendo informazioni raccapriccianti sul paese). Un paese dove i mussulmani sono oltre l’80% della popolazione. Ma il Mali ha anche un triste primato: l’infibulazione, la più cruenta delle mutilazioni genitali femminili è una pratica che oggi continua a coinvolgere oltre il novanta per cento delle donne tra i 15 ed i 45 anni. 

 

 

Adoro il caos ordinato del mercato africano che e’ l’incontro di seducenti etnie che contrattano animatamente mercanzie svolazzanti tra le polverose vie della città. Il mercato africano è un palcoscenico di terra rossa, dove polli saltano sulle teste delle donne e la polvere sollevata crea quel suggestivo mistero che invita ad entrare in un mondo dei balocchi. Blocchi di burro di karite’ (che qui è usato anche nell’alimentazione e per uso medico, oltre che cosmetico) e cesti di manioca, entrambi dai colori tenui, si mischiano ai bogolan, gli straordinari tessuti dai decori con tinte vegetali miste a fango,  e alle suggestive maschere artigianali che raccontano una storia. E poi ci sono quegli orrendi banchetti di feticci, con teste di animali pronte al rito della speranza .

 

 


 

Nella capitale merita una visita il Museo Nazionale dove viene raccontata la storia della tessitura in Mali, con esposizione di costumi dei diversi gruppi etnici.

 

E poi si sale, fino al cosiddetto Punto G, che sorge su una delle colline ed è il punto panoramico della città.

 

 

 

 

Poco fuori dalla città il porto di sabbia di Kalaban Coro è un luogo infernale. Le piroghe di legno scaricano la sabbia raccolta nel Niger in un porto che funge da approvvigionamento di sabbia dei cantiere di costruzione della capitale. Un duro lavoro che coinvolge tutti, uomini e donne. Per meno di 10000 cefa (meno di venti dollari) un folto gruppo di persone procede a scaricare la piroga dopo l’estrazione della sabbia. Sempre più donne sono impegnate in questo mestiere che permette loro di aiutare  la famiglia, anche se l’ambiente e’ ambiguo, e francamente ho visto molti sguardi bassi, quasi come se nascondessero verità che non si possono dire. Qui la gente non vuole essere fotografata: ho comunque fatto qualche scatto veloce per testimoniare la fatica di questa gente, che si muove senza sosta, e purtroppo ho pensato che forse qualcuno li osserva minacciosamente, come in una sorta di schiavitu’.

 



 

Finalmente si lascia la capitale.

Segou, a 240 chilometri da Bamako, è una città piena di storia, con i suoi splendidi edifici coloniali. Siamo nel regno dei Bambara: discendenti dell’antico impero del Mali, sono considerati i primi ad aver introdotto l’agricoltura nell’Africa sub sahariana. Un’immersione nella storia gloriosa di un popolo che ha costruito  muri, cortili e palazzi di immane bellezza.

 

 


 

 

Poco oltre, in un villaggio, si produce la birra ottenuta dalla fermentazione del miglio o del sorgo rosso. Un ragazzo del villaggio ha precisato che è perfetta anche per chi è intollerante al glutine!


 

 

Segou è anche conosciuta per gli splendidi tessuti Bogolan. Gli uomini tessono il cotone la cui filatura è effettuata da donne sedute per terra che, con grande alacrità, torcono e avvolgono il filo al fuso. Il movimento ritmico sul telaio dei piedi nudi degli uomini, che realizzano una lunga banda di stoffa bianca lunga 27 metri e larga poco più di 10 cm, è magia pura. La stoffa viene poi tagliata, cucita, tinta e lavata. Solo alla fine, quando la stoffa avrà un color ocra, viene eseguito il disegno utilizzando del fango raccolto nel Niger e lasciato fermentare in giare. La simbologia rappresenta persone ed animali ma anche  idee astratte o concetti religiosi. Il bogolan è un simbolo di questa società: le donne indosseranno il loro primo bogolan al passaggio all’età adulta e poi per il resto della loro vita.

Ho visitato due centri, N’Domo ed un altro, entrambi meravigliosi esempi di artigianato e libri aperti sulla cultura locale.

 

 


 

 

 

La piroga, lunga e affilata,  scivola dolcemente sul Niger, tra villaggi brulicanti e sornioni . Le “pinasse” (dal latino “pino”, nome totalmente inappropriato perché in realtà le piroghe sono fatte di ogni tipo di legno tranne il pino) sono il mezzo di trasporto più usato sul fiume. Una piacevole gita porta a Segoukoro, dove si incontra il capo villaggio, che, in abito tradizionale ci riceve sottolineando immediatamente di essere un discendente di Biton Mamary Coulibaly, il fondatore del regno di Segou nel XVIII secolo.

 

 

 


Segoukoro parla con le sue straordinarie architetture in stile neo-sudanese che si affacciano sulle sponde di quel carismatico fiume Niger. Il Festival sul Niger di febbraio richiama i più grandi artisti dell’Africa Occidentale che danno voce alle danze delle maschere locali. Purtroppo questo è un anno particolare e quindi non sono potuta venire in quel periodo come avevo previsto.

 

 



 

 

All’inizio del diciottesimo  secolo Biton Mamary Coulibaly ha fondato il regno più potente dell’Africa occidentale, fino alla fine del diciannovesimo secolo. In questo periodo sette vestiboli furono creati, come simbolo di potenza del Regno. Questo luogo ha una grande importanza per i Bambara (o Bamana) e si può visitare l’interno dove sculture rappresentano la vita quotidiana

 

Nei villaggi del paese la vita ha ritmi regolari, si  stende il bucato appena lavato sui cespugli, si porta l’acqua a casa, si lavora negli appezzamenti di terreno coltivato , si riparano alacremente le reti da pesca, si raccoglie l’acqua, si trasporta la legna. 




 

 

Una donna Fulani (popolo conosciuto anche come Peul), si fa fotografare e mostra con orgoglio il suo particolare tatuaggio. La tradizione di tatuarsi di nero tutta la parte intorno alle labbra ha il nome di « tchoodi ». Il tatuaggio è fatto usando un ago caldo e sottile ed un inchiostro speciale: l’operazione è molto lunga. Lo scopo è di creare un contrasto tra la pelle scura-rossastra (i Peul sono chiamati « neri dalla pelle chiara o rossi »),  il tatuaggio nero ed il bianco dei denti, quando la donna sorride e questo la rende  più seducente agli uomini. È un rito di passaggio all’età adulta, che trasforma la ragazza in donna, un rito molto molto doloroso: lo stoicismo è prova di coraggio, di rispetto delle tradizioni ed orgoglio di appartenenza.
“Nella nostra cultura non c’è posto per la paura. Noi siamo fiere di affermare la nostra identità “

 

Si riparte, con una sosta in un villaggio dove incontriamo le donne e la musica ritmica dei pestelli che preparano il miglio. I grandi contenitori in fango, che lo contengono, hanno anche un significato diverso. Quando un uomo vuole sposarsi, deve costruirne  uno  per suoi genitori. Il messaggio è semplice: “ora sono pronto, trovatemi una moglie”.

 

 

 


E dopo gli ennesimi sorrisi il nostro viaggio continua lungo una strada gradevole per tornare a Segou, dove ci attende un bel tramonto sul fiume, ed una bella serata 

A Segou provate le ottime Brochettes su Capitaine (spiedini di delicatissimo pesce), suggerite da un amico italiano che conosce bene il paese e partecipa anche agli straordinari progetti di una Onlus che costruisce, tra l’altro, pozzi in Mali (se volete approfondire andate su www.sesonrose.net).  Ci sono due posti ottimi per provarle, Le soleil de minuit (Top!) e l’Hotel  Esplanade, dove potete anche sorseggiare una birra con il cielo che si colora di un arancione splendente, per un tramonto con sorpresa.

 

 

La partenza verso il nord necessità di particolare attenzione. Purtroppo la situazione del paese è molto instabile, ed un gruppetto di stranieri da’ nell’occhio. Saremo costretti a dividerci su 3 macchine ed avere una folta scorta che ci accompagnerà per i prossimi giorni. 

Come in molti paesi africani la vita ruota attorno al fiume, che fornisce la manna, l’acqua, che serve per far crescere il cibo, assetare il bestiame, approvvigionare il fango per le case e le terraglie. Il Niger è “il fiume dei fiumi”, un sensuale bacino di vita, dove si nota il lento scorrere delle piroghe, che si trasforma  in mare durante la stagione delle piogge.  Mopti è un microcosmo che rappresenta perfettamente l’Africa di ogni immaginario. La chiatta traghetta un mondo che non aspetta: in Mali la parola ordine e’ stata depennata dal dizionario o, chissà, forse mai esistita. I barconi salpano per Timbuktu e corrono lungo villaggi con capanne tondeggianti. Le stoffe colorate anticipano l’entrata in scena delle donne Peulh con la loro cesta orgogliosamente appoggiata sulla testa. Carrette trainate da cavalli domati da ragazzini, nomadi Peulh che trascinano i montoni, ragazze Bozo con in mano pesci essiccati, ed ogni mezzo carico di mercanzie strabordanti, si fanno spazio per salire. Un alveare colorato, un formicaio nella “Venezia del Mali” con i ritmi veloci quasi ci fosse una gara in corso e l’odore intenso del pesce essiccato, che si sparge nell’aria. E poi l’altra grande risorsa, l’oro bianco, blocchi di sale luminescente, che hanno fatto un lungo viaggio.

 

 


 

 

 

 

Mopti è costruita su 3 isole collegate da dighe ed è alla confluenza tra il Niger ed il suo affluente Bani: per questo l’area e’ piena di risaie. Molte etnie convivono armoniosamente: i Bozos, i Peuls, I Dogon, i Bambara, I Songhais. La moschea di Komoguel è una costruzione in terra costruita in stile sudanese tra il 1936 ed il 1943, cui sono seguiti lavori di restauro fino al 2006, anno in cui la Grande Mosquée di Mopti è stata iscritta nella lista dei Patrimoni Nazionali del Mali.



 

 

 

La nostra “carovana”  corre veloce, senza soste, attraverso una campagna arida con tanti cespugli e qualche baobab che ci ricorda che siamo in Africa, fino ad arrivare a Djenne’, la « sorella gemella » di Timbuktu, uno dei siti mondiali dell’Unesco.

 

 

Djenne’ è un miraggio reale da “te’ nel deserto”. La moschea di Djenne’ è il più grande edificio al mondo costruito con la tecnica detta “Djenne” che trasforma le palle di terra cruda (Adobe) ancora umida, in mattoni legati proprio dallo stesso fango, ed è l’orgoglio della città. È considerata la rappresentazione suprema dello stile sudanese e del sahel. Imponente, austera ma così delicata, da sfaldarsi,  sotto le piogge tra giugno e agosto, che la fanno sciogliere quasi come neve al sole. Ma la gente di Djenne’ la ama e partecipa attivamente alla manutenzione.  Tutta  la comunità si raduna una volta all’anno per riportarla al suo splendore. La grande festa inizia con le donne che sinuose portano giare d’acqua. Il fango viene preparato: un intonaco pastoso con i bambini che aiutano a mescolarlo fino ad ottenere la consistenza desiderata. Solo allora gli uomini si innalzano sulle pareti della moschea e, con grande abilità, danno il via al “crepissage” , il rifacimento della facciata della loro Regina. Una festa che coinvolge tutti, compresi gli anziani, seduti al posto d’onore, a dirigere l’orchestra dei muratori. Dal terrazzo  di una casa i pinnacoli della moschea si scagliano orgogliosi verso il cielo, creando ombre di grande effetto.
La moschea ha una pianta quadrata, di 75 metri di lato, è sorretta da oltre 100 colonne e  può contenere mille persone.

 

 

Nella vecchia biblioteca il responsabile ci mostra con orgoglio gli antichi manoscritti e le scuole coraniche.


La città fa parte dal 2006 del cosiddetto” patrimonio in pericolo” , a causa della sua posizione, trovandosi in una zona insicura, potenziale preda di quei gruppi islamisti radicali non molto lontani.
Djenne’ è un gioiellino, tutta costruita con mattoni fatti da sabbia e acqua. I vicoli hanno un colore che cambia secondo la luce del giorno.

 

 

 

 


Oggi ho incontrato una donna Tamashek, una tuareg, una berbera, una delle varie popolazioni nomadi del Nord Africa . Mi diceva:  “Amassakoul, Amassakoul”, tra sorrisi di una dolcezza infinita. Ho cercato un dialogo,  mentre dalla mia bocca uscivano parole in tutte le lingue che conosco, cercando di attirare la sua attenzione. Nulla, solo quell’Amassakoul insistente. Non vedevo l’ora di tornare in hotel e scoprirne il significato. Ed eccolo: “Viaggiatore, ma nel senso più ampio del termine, una parola che racchiude il concetto di esplorazione ed esploratori”. Grazie a te, Maliana, mi hai reso felice, spero di rincontrarti per dirtelo di persona.

Il Viaggio di ritorno prevede una sosta ad un’altro splendido edificio. La moschea di San è una chicca, costruita in fango grigio secondo i codici dell’architettura sudanese.

 

 

Salutiamo la scorta che, ormai rilassata, si lascia fotografare e ci confessa di essere contenta, perché la nostra presenza ha dato speranza ad un paese dove il turismo è grande fonte di ricchezza (un ragazzo della scorta, di Timbuktu, mi ha detto che il turismo rappresentava per la città il 70% delle entrate, ed oggi, cioè dal 2012, purtroppo anche la disoccupazione ha messo in ginocchio l’intera città).


 

 

Ad una cinquantina di chilometri da Bamako, a sud ovest, sulla strada che porta in Guinea, c’è il paese di Siby, un comune rurale di circa 20.000 abitanti. Il paesaggio cambia, e sembra di essere in un’oasi di pace e bellezza. Alberi di mango profumano l’aria di questo villaggio mandingo incastonato in un’ ambientazione naturale spettacolare, tra dolci montagne. Un piccolo trekking (non impegnativo) porta all’arco naturale di Kamajan, scavato nella roccia, che domina la vallata. Solo il graffiante « gra gra » dei bellissimi calao (uccelli) del luogo  disturba la pace intorno. Se avete un’auto 4×4 vi consiglio di percorrere i 15 km di duro sterrato anche se la vostra schiena vi ringrazierà solo quando arriverete davanti alla cascata, e potrete buttarvi nell’acqua cristallina della piscina naturale. Se volete trascorrere una notte sotto le stelle, c’è un campo attrezzato, in mezzo alla natura. Dormirete in comode tende montate dai proprietari del posto e potrete gustare un ottimo couscous.



 

 

 

 

Al ritorno, l’ultimo affollato mercato (a Siby) tra gli intensi profumi di arachidi, le  zuppe che sfrigolano, e the preparati con arte, prima di tornare nella capitale.

 


 

 

A proposito di cibo, l’influenza senegalese e del Sahel è forte in tutto il paese. Tra i piatti più comuni ci sono il pollo Yassa (con cipolle stufate), il riso con salsa di arachidi, il pesce fritto o affumicato in salsa di arachidi. E tra le bevande un’ottima bibita rinfrescante allo zenzero oppure all’ibisco (bissau), e, naturalmente l’immancabile the

 

 

Prima di chiudere vi lascio alcune foto fatte a persone incrociate in questo straordinario viaggio, perché penso davvero che la cosa più bella che ho visto sono loro, sguardi incantati, sorridenti, a volte malinconici, ma sempre curiosi e disponibili. Si, mi piace questo del Mali, le mille, semplici immagini di vita quotidiana che ti regala ogni giorno, sempre uguali, sempre diverse e mi sento davvero come Jovanotti…. perduta come un granello di sale in un mare salato.

 

 



 

Lascio questo paese con la certezza di tornare, non solo perché Timbuktu e la falesia di Badiangara (con i mitici Dogon) restano nei miei sogni, ma perché per me il Mali è un’opera incompiuta, che deve ancora realizzarsi, uno di quei luoghi dell’anima.  E poi mi identifico nella nostra guida, Abdoulaye, “le Tuareg noir”, terzultimo di diciotto figli (lui precisa che erano diciannove, ma uno è morto piccolo), Padre nomade, che  ha passato la sua vita nella carovana del sale da Taoudeni (frontiera Algerina) a Timbuktu. Un viaggio mistico: 1500 km (andata  e ritorno), 30 giorni di viaggio, sei mesi all’anno (da ottobre a marzo). Abdoulaye mi ha detto: “ chi ha il sangue nomade sa che c’è sempre un modo di viaggiare. Anche nella peggiore avversità c’è una via”.  Quanta verità, ci vediamo presto!

 

2 risposte

  1. Grande Laura, in questo difficile periodo dove partire sembra impossibile tu ci fai viaggiare attraverso foto e descrizioni dettagliate attraverso le quali ci sembra di essere li con te

    1. Carissima Paola, ti ringrazio tantissimo del tuo commento. Questo viaggio è stato davvero una gioia del cuore e dell’anima. Mi fa immenso piacere sapere di essere riuscita a trasmettere un po’ delle mie sensazioni soprattutto ad una persona sensibile come te

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