« Io non credo nella magia, sono soltanto un mucchio di stupide superstizioni » (da “I predatori dell’Arca perduta”).
Benvenuti nella “città di pietra”, il magico paradiso delle bellezze nascoste, il reame della giungla dipinta, il labirinto da cui non vorresti mai uscire. Il ponte d’entrata in Angkor Wat è il ponte del paradiso immaginario, quello che si erge di fronte è il maestoso gioiello costruito dalla misteriosa civiltà khmer, uno straordinario esempio del potere imperiale di Suryavarman II. Questo tempio fu ultimato nella prima metà del XII secolo. Quattro chilometri di cinta muraria proteggono il tesoro. Le alti torri sfiorano il cielo, mentre l’interno è un incredibile labirinto circondato da colonne ornate da bassorilievi: un’opera d’arte nell’opera d’arte. Angkor Wat è straordinariamente affascinante, una sorta di gioco virtuale in cui è bello perdersi. Oggi, oltre due milioni di visitatori l’anno varcano il ponte del paradiso alla ricerca di un’effimera felicità, che dura il tempo di una visita.
Ci sono 3 tipi di biglietti: un giorno (37USD), 3 giorni (62USD) e 7 giorni (72USD). Già, perché il paradiso è grande, un immenso parco naturale di oltre quattrocento Chilometri quadrati. Arduo vedere tutto da soli per le distanze, ma anche perché alcuni gioielli sono veramente nascosti, piccole pietre incastonate in quella foresta altera che si fa spazio con quella superbia cui dobbiamo inchinarci come umili osservatori.
Le guide parlano un inglese stantio, ma si legge nei loro occhi l’orgoglio di appartenenza. Ed i tuk-tuk sgambettano tra cotanta beltà, mentre lo sguardo corre lento e veloce.
Il fascino integro di Angkor Wat ti catapulta in film d’avventura. Se il grande tempio del “paradiso” ti abbaglia per la sua immensità, e ti fa giocare con le scimmiette dispettose che sembrano saltimbanchi del circo, è l’entrata nella giungla che ti proietta in un film d’avventura. La giungla è prepotente, oppressiva, ingombrante, ed allunga le sue radici, prendendosi spazi sempre più grandi, un pitone che stritola la sua preda, ma in un modo così avvolgente che ti lasci trasportare.
Anch’io mi sono sentita un po’ Angelina Jolie in Tomb Rider (film girato proprio qui, al naturale), quando mi sono trovata circondata dalle immense radici dei ficus strangolatori, che fanno da cornice al Ta Phrom, il tempio più suggestivo. Un quadro perfetto, opera di quella natura che ha dato il meglio di se, avvolgendo i resti del tempio, abbandonato nel XV secolo con la caduta dell’impero khmer.
L’atmosfera è uno spettacolo unico: cerco con lo sguardo la telecamera, tra misteri celati e segreti irrisolti, come in un film di Indiana Jones, e non posso credere che sia tutto naturalmente vero. E poi scopro che qui vivevano oltre 12,000 persone, scappate nel XV secolo, con la fine dell’impero Khmer.
Ma il sito è una caccia al tesoro interminabile, dall’entrata del South Gate, cui fanno ala decine di statue di Buddha che portano al secondo tempio per importanza, il Bayon: fatto costruire dall’imperatore Jayavarman VII nel XII secolo si trova nell’area chiamata Angkor Thom, poco oltre Angkor Wat.
Oltre duecento volti, tra sguardi enigmatici e volti normali, un incredibile e sorprendente museo a cielo aperto, con le sue innumerevoli decorazioni scultoree.
E si riprende la via dell’uscita tra scalinate e balaustre dove altre scimmiette mocciose trascorrono le loro lunghe ore ludiche.
L’ultimo sguardo all’indietro per vivere ancora il sogno
Ma partiamo dall’inizio del mio viaggio, che mi ha condotto a questo sito, Patrimonio Mondiale dell’Unesco dal 1992.
Siamo partiti dalla Thailandia, da Bangkok con un autobus locale che in sei ore ci ha portati a Siem Reap. La linea Giantibis è un’efficiente linea di autobus che viaggiano in Cambogia, Vietnam e Thailandia. Il biglietto comprende una colazione, il caffè e Free Wifi. L’entrata in Cambogia dalla frontiera di Ban Khlong Luk / Poipet è piuttosto veloce, 35Usd per il visto, fotografia ed impronte digitali, ed eccoci nella piccola monarchia buddista. Un paese dove oggi i tuk-tuk ed i motorini risvegliano l’atmosfera rilassata, conquistata con tanto sangue. L’orrendo passato recente ha lasciato cicatrici indelebili. Il genocidio, o fratricidio, l’olocausto tra il 1975 e il 1979, 3 anni, 8 mesi e 21 giorni di orrore, dove più di tre milioni di persone persero la vita.
Il governo di Pol Pot (ed i Khmer Rossi ) è ancora vivo negli incubi dei sopravvissuti!
Ma prima di parlare dell’orrore, facciamo un giro a Siem Reap, che da villaggio si è trasformato in una sorta di paese delle meraviglie, una Las Vegas senza casino’ dove strade vestite a gran festa si illuminano verso sera creando una magica atmosfera dove perdersi. Pub Street pullula di ristoranti per tutti i palati, dai semplici carrettini dell’odoroso Street food, a chiccosi ristoranti internazionali. La cucina asiatica è un’esplosione di colori e profumi. Veri artisti creano le loro opere per strada: consiglio di provare i gelati che vengono fatti sul momento. La frutta dalle mille fogge viene gettata su una piastra ghiacciata ed abili mani la lavorano velocemente con il latte fino a trasformarla in un gelato burroso.
Uno dei piatti nazionali della Cambogia è l’Amok, spezie Khmer, uova e latte di cocco avvolgono un vellutato pesce bianco, servito dentro foglie di banano: un piatto molto delicato dal gusto delizioso.
Ma la cucina cambogiana è tutta un tripudio di sapori, dove molte spezie sono le padrone. Onnipresenti, lo zenzero e la menta. I piatti tipici vanno dalle zuppe con melanzane, papaia, spinaci, latte di cocco, riso e spezie Khmer, al curry di pollo (pollo a pezzetti ammorbidito con l’immancabile crema di cocco, le melanzane e le patate dolci). E per finire, oltre ad innumerevoli frutti di fogge, colori e profumi inebrianti, il famoso riso al mango (per me troppo dolce: si tratta di una palla di riso appiccicaticcia e gommosa al morso, da mangiare con il mango).
E poi, per chi vuole fare il pieno di proteine diverse, scorpioni, larve, grilli, tarantole. Se ancora esitate a provarle sui banchetti per strada, un ottimo ristorante, gestito da uno chef francese è Bugs Cafe’: un’insalata fresca e delicata con la parte croccante data dallo scorpione, una tarantola fritta da intingere in una salsa agrodolce al profumo di menta, morbidi bachi da seta stufati lentamente in una peperonata ai tre colori, ed uno spiedino che alterna verdure e “carni” da sgranocchiare dopo averle immerse in intingoli leggeri.
Per chi non vuole spendere una fortuna in hotel, c’è un ottimo ostello, in posizione strategica (subito fuori dal caos notturno di Pub Street, ma comunque a breve distanza a piedi), Lub-D, che ha anche camere private con bagno, modernissime e minimal, ad un prezzo davvero basso, circa 30USD (ottima colazione inclusa). L’ambiente è effervescente, e chi vuole, si può concedere un’aperitivo a bordo piscina, con ottima musica.
Per arrivare a Phnom Penh ci sono dei comodi autobus, della linea Giantibis, tutti con aria condizionata, scivolano su una strada trafficata per sei ore. Ogni due ore una sosta per un caffè od il pranzo. Arrivare a Phnom Penh nel tardo pomeriggio è gustarsi il meglio di una città dall’aria serena: la vita scorre tra gente che passeggia lungo il fiume. Il mezzo migliore per muoversi in città è sui tuk-tuk, guidati da abili equilibristi.
La gente passeggia nel parco.
Lungo il fiume Mekong si passa davanti allo storico FCC (Foreign Correspondents’ Club), dove si ritrovavano i giornalisti e tutta la stampa estera di guerra, fino al trattato di pace dell’ottobre 1991, che segna la fine ufficiale della guerra Vietnam-Cambogia. L’edificio è ora in ristrutturazione, in attesa di ritrovare la sua identità un poco ingiallita.
Phnom Penh è l’incontro tra tradizioni e modernità, con un occhio a quel passato non troppo lontano, intriso di cicatrici indelebili. Poco fuori città i campi di sterminio, i Killing fields, (vi ricordate il film “le urla del silenzio?” Di Roland Joffe’ del 1984?). Choeung Ek è un ex frutteto a 15 km dalla città, tragicamente famoso per i massacri di massa dopo la fine della guerra civile cambogiana e l’arrivo del regime nazional-maoista di Pol Pot. I numeri sono impressionanti: la stima dei morti provocati dai khmer rossi in meno di 4 anni (dal 1975 al 1979) è tra 1.700.000 e 2.500.000 (compresi i decessi per fame e malattia). Oggi il monumento alla memoria è una stupa buddhista con pareti in plexiglas con oltre 5.000 teschi umani. Intorno, fosse comuni e tra gli alberi, nascosti, altoparlanti che emanavano musica per celare lo strazio dell’esecuzione. Una camminata nell’inferno, dove l’aria è ancora intrisa di orrore, per non dimenticare una delle pagine più tetre della storia dell’umanità.
Il museo del genocidio di Tuol Sleng è stato inserito nel 2009, nell’Elenco nelle Memorie del Mondo dall’Unesco. Nato come Scuola Superiore, questo edificio è stato convertito durante la dittatura dei khmer rossi in un vasto sistema di prigioni. Situato in centro città, il cosiddetto « Ufficio di Sicurezza 21, o S-21 »divenne un centro per interrogatori e torture. Di tutti i prigionieri rimasti, ne sopravvissero solo 14, perché utili ai carcerieri, di questi tre ancora in vita. Si stima che dal 1976 al 1979 furono imprigionate 17.000 persone, in tre periodi, prima i militari e collaboratori del regime deposto, poi la classe borghese di professionisti ed intellettuali, ed infine tutti i sospettati di complotto per rovesciare Pol Pot. Un’orrore senza pietà, che eliminava non solo il “traditore”, ma anche i famigliari , neonati compresi. Per le esecuzioni raramente si usavano i proiettili ritenuti troppo costosi: spranghe di legno sulla nuca e affilati coltelli che recidevano la giugulare. Le urla strazianti erano un esile eco, nascoste da rumorosi camion lasciati in moto per coprire la folle esecuzione. Non solo cambogiani, ma anche coloro che erano considerati come “cuore vietnamita in un corpo cambogiano”.
Il museo ha una media di 500 visitatori al giorno ed è un’immersione in un triste ricordo da non dimenticare. Alla fine si può avere la fortuna di incontrare uno dei sopravvissuti, com’è successo a noi. Chum Mey fu salvato solo perché aveva una grande competenza nella riparazione di macchinari per i soldati di Pol Pot: la sua famiglia (moglie e figlio) furono sterminati in una risaia. Quando tutto finì, si è risposato ed ha avuto sei figli. Oggi è un arzillo signore novantenne che passa parte delle sue giornate al museo del genocidio dove racconta la sua tragica esperienza e firma autografi della sua autobiografia.
Oggi l’età media della Cambogia è 25 anni e solo il 4% della popolazione supera i 67 anni: il genocidio dei khmer rossi ha dilaniato una generazione (tra il 1975 ed il 1979)
A Phnom Penh i ristoranti pullulano di delizie. Vi consiglio uno straordinario ristorante « etico ». Romdeng è un accogliente ristorante con terrazza in mezzo al verde della città. Recupera persone disagiate cui viene insegnato a cucinare e servire. Una parte dell incasso va in beneficienza. Un’ottima occasione per provare (per chi vuole un piatto locale) la cucina Khmer con pesce Amok.
E poi di corsa verso il Mercato Notturno, con bancarelle di oggetti e street food a gogo.
Se cercate un ricordo cambogiano da portare a casa, vale la pena fare un salto al mercato Russo, con bancarelle colorate di ogni genere.
Lasciamo la città e ci dirigiamo verso il porto per prendere lo speed boat che ci farà attraversare una parte di uno dei fiumi mitici: il Mekong, l’undicesimo fiume al mondo per lunghezza (oltre 4.800 chilometri e sei paesi: Cina, Myanmar, Thailandia, Laos, Vietnam e Cambogia).
Un percorso silenzioso, tra pescatori, villaggi galleggianti e foreste di mangrovie. Attraversare il Mekong, con la fantasia che evoca gli antichi fasti dell’Indocina, fa pensare ai grandi autori, come Hermann Hesse: « gli pareva che il fiume avesse qualcosa di speciale da dirgli, qualcosa ch’egli non sapeva ancora, qualcosa che aspettava proprio lui ».
E così, volando sull’acqua per cinque ore, arriviamo al confine con il Vietnam.
Una sosta per le pratiche burocratiche del passaporto e via…..un’altra ora per raggiungere Chau Doc, da dove ripartirà il mio prossimo blog.