GHANA
A circa ottanta chilometri dalla frontiera di Noe’ (una delle più veloci e meno complesse di tutto il viaggio) c’è una spiaggia da Robinsoe Crusoe.
Al mattino le palme salutano il sole sfiorando la sabbia dorata. In una foresta delicata, di quelle con tappeti di foglie morbide, puoi scegliere se piantare una tenda e vivere in completa immersione nella natura, con quel meraviglioso senso di pura libertà (come ho fatto io), oppure affittare uno dei bungalow dell’Ankobra beach Resort, con tutte le comodità del caso. La notte è magica tra il dondolio del mare e la musica da foresta incantata ed il risveglio del mattino ha come colonna sonora la risacca dell’oceano che mette tutti in piedi con ottimo umore.
La strada che porta verso la costa sarebbe veloce, se non ci fossero spesso dossi in mezzo alla strada fatti da grosse corde.
Ed eccola, la storia del Ghana: i circa trenta “castelli degli schiavi” o grandi fortezze commerciali costruite su quella che era la Costa d’oro dell’Africa Occidentale (ora Ghana). La maggior parte di queste costruzioni sono del diciassettesimo secolo, periodo in cui i maggiori stati europei (le proprietà erano olandesi, portoghesi, britanniche), si contendevano il primato del lucroso e fiorente mercato degli schiavi.
Fort Santo Antonio a Axim è in una ridente cittadina. La vista è su pescatori che tirano a terra le enormi reti azzurre. La fatica di un altro giorno di duro lavoro si vede sui corpi mogano lucidi dal sudore.
Centotrenta chilometri oltre si arriva a Elmina, la fortezza nota anche semplicemente come Mina, passata dal controllo olandese a quello britannico. Oggi è sito storico riconosciuto dall’Unesco ed è uno dei posti più turistici del paese. A pochi chilometri di distanza Cape Coast con il suo castello che domina la baia.
E’ ora di lasciare la Costa: a trentacinque chilometri, il Kakum National Park, 350 metri quadrati di foresta pluviale. Famoso più per il birdwatching anche se pare (e dico pare, perché non ne ho visti) ci siano elefanti ed altri grandi mammiferi. Ma la principale attrazione è un percorso lungo costituito da molti ponti di corda sospesi dai quali si ha uno splendido ed inusuale punto di vista della foresta. Il più spettacolare è il Canopy Wall, lungo 350 m e sospeso a 40 m di altezza; dal ponte si dipartono piattaforme di osservazione legate in sicurezza al tronco degli alberi più alti.
Torniamo alle spiagge: Kokrobite è una cittadina a trenta chilometri da Accra, ed è una destinazione amata dai turisti per un sano relax in settimana. Il weekend diventa il ritrovo dei volontari del paese e degli amanti della vita notturna. Francamente le spiagge non sono un granché, tra rifiuti di ogni genere, mentre ho amato il villaggio con gente serena e sorridente, pronta a scambiare quattro chiacchiere. Una vera oasi di pace e bellezza è il Kokrobite Garden, un giardino incantato con bungalow colorati in mezzo ad un parco ed una piscina dove rinfrescarsi. Decisamente rustico-chic, guarda caso i proprietari sono italiani. L’Hotel è a meno di duecento metri dal mare e, se proprio volete fare un’immersione di musica dal vivo e alcool a gogo, il Big Milly’s Backyard vi aspetta tutta la notte, al suono di tamburi o musica reggae (molte serate a tema).
Code chilometriche, clacson assordanti, tre ore per fare meno di trenta chilometri ed arrivare in un posto brutto. Accra e’ solo caos, polveroso ed appiccicoso, sotto quelle orrende nuvole di afa che tolgono ogni velleità. Il trasporto in Ghana è tro-tro, trenta persone in uno spazio per diciotto, autoadesivi inneggianti a Gesù o Allah, a seconda del credo religioso, musica a manetta, e tanti rasta, sembra la Giamaica di vent’anni fa. Un frullatore che spreme tutti quelli che hanno il coraggio di salire, dal ragazzo fresco di barbiere alla donnona che tiene per i piedi un paio di galline intontite, forse dal profumo delle ascelle, dal rasta ciondolante alla ragazzina con la divisa della scuola inamidata.
Lasciamo per qualche giorno le rotte del turismo classico e ci dirigiamo a nord, nella regione Volta, verso le montagne. La strada si inerpica dolcemente tra verdissime colline fino a Tafi Atome, un villaggio semplice con una fantastica passeggiata circondati da scimmiette che cercano di rubare le banane.
E se volete passare la notte tra le ridenti montagne della zona vi consiglio Biakpa Mountain Paradise. Le stanze sono semplici, ma il bar/ristorante con vista valle è un bel posto per rilassare anche la mente. Molto economico.
E poi villaggi e villaggi
Le domeniche nel Ghana sono placide e silenziose, come Torino in agosto. Al mattino non ci sono negozi aperti, non c’è quasi nessuno in giro, si sente un solo rumore, quello dei canti delle chiese, ore e ore di Alleluja, dalle 5:30 del mattino! E quando chiedo in un semplice ristorante se posso avere qualcosa da mangiare alle 11:30 mi viene risposto: “sono ancora tutti in chiesa, ripassa tra un’ora “. I pastori, i preti, i profeti sono dei veri uomini da spettacolo, e creano eventi pieni di discorsi, preghiere, canti e musica, che spesso sfociano in momenti di grande esaltazione di massa.
La cucina Ghaniana è fatta di cose semplici ma ottime. Sulla costa, quando vedete il pesce grigliato per le strade, è molto probabilmente tilapia, una prelibatezza, ben speziata. Si accompagna al banku, un mix di mais fermentato e pasta di manioca, pepe molto piccante, pomodori a cubetti e cipolle.
E poi l’immancabile Jollof rice originario del Senegal, ma molto popolare anche qui. Jollof è una pentola di riso preparata con salsa di pomodoro (da qui il colore aranciato) e servita con carne o pesce. Lo si trova nella maggior parte dei ristoranti o distribuito dai venditori ambulanti a prezzi convenienti.
Nei villaggi di montagna il banku è l’accompagnamento di piatti molto economici con carne selvatica, come l’antilope, molto gustosa con la salsa di cipolle e l’okra, una malvacea. Il frutto dell’okra ha l’aspetto simile a quello di un piccolo peperone e ricorda quello dei nostri friggitelli. Al suo interno sono presenti semi e una sostanza gelatinosa, che da’ una consistenza bavosa giallognola, orrenda da vedere, ma decisamente piacevole al gusto. E poi il Fufu, un alimento base in tutta l’Africa occidentale, fatto martellando una miscela di manioca bollita e piantaggine in una pasta morbida e appiccicosa per accompagnare zuppe di pomodoro aromatiche e speziate. Si mangia con le mani, pardon, con la mano destra….mai usare la mano sinistra.
TOGO e BENIN
Ebbene sì, l’entrata in Togo dalle “montagne” è un programma di una tv in bianco e nero degli anni settanta. Su un noto sito per Overlander avevamo letto che la frontiera classica Ghana -Togo dalla Costa era particolarmente dispendiosa. Una lunga serie di corde in mezzo alla strada con poliziotti pronti al quiz del giorno: “perché il faro destro è alto?”“perché quello sinistro è basso?” “Perché la gomma anteriore sinistra è un po’ sgonfia?”, ecc. ecc. “Non posso darti l’ok….. cioè magari posso anche chiudere un occhio, capisci no?”. Insomma, un ragazzo tedesco con un furgoncino, che fa all’incirca il nostro itinerario e che abbiamo incontrato più volte, ci ha detto che ha speso più in questa frontiera che in birre durante tutto il viaggio! Ecco che, essendo più a nord, decidiamo di provare una frontiera diversa. La strada torna di quella terra rossa che mi è tanto cara, con quella polvere che s’impossessa del mio corpo come se fossi esorcizzata, forando i vestiti e tatuando la pelle sudata. Anche i villaggi sono spariti, sembra che all’improvviso il mondo abbia fine in questo inferno di caldo africano che si appiccicherà sulla pelle. In lontananza una corda tesa ed un gabbiotto di legno, reminiscenze dei pollai d’infanzia in campagna. Un poliziotto assonnato strabuzza gli occhi, mai visti tanti bianchi insieme. All’interno due panchine (di cui una più alta che funge da tavolo) ed il ragazzo, giovane, molto giovane, che si guarda intorno, come smarrito. “Ci serve un visto, grazie”. Ed ecco che tira fuori da una polverosa scatola di legno intarsiato il magico registro. Ci vorranno 6 ore e mezza per fare il visto (la prima ora sarà per leggere e capire la procedura, perché, malgrado lavori in quel posto da tre anni, non ha mai avuto la necessità di fare un visto a “stranieri”), con ben 6 timbri diversi.
Lome’ è una città brutta, meno caotica delle altre capitali africane visitate, ma comunque brutta. Una delle poche cose interessanti è il grandissimo mercato, dove si compra di tutto, e dove si può tranquillamente passare mezza giornata tra colori e contrattazioni, perché fa parte del folklore locale. Sembra quasi che anche per il venditore, se non avvii una contrattazione, la giornata diventi lunga e noiosa.
Ma c’è un altro posto che rappresenta pienamente l’anima del paese, il mercato di Akodessawa, dove i vari adepti dell’animismo locale vengono ad acquistare tutto ciò che è necessario per i sacrifici vudù. Più del cinquanta per cento dei togolesi sono animisti. Il secondo maggior gruppo religioso è costituito dai cristiani (circa 30%), il resto della popolazione è principalmente di fede islamica.
Animismo e cristianesimo, una strana convivenza, felice. Anche se è il Benin il regno dei vudù, quella cultura che si diffonderà poi soprattutto in molte isole dell’America Centrale (dalle Antille a Cuba) ed in Brasile attraverso il commercio degli schiavi, ne parlo ora perché questo mercato è il più grande che ho visto. Se dovessi solo considerare la mia posizione, totalmente atea e miscredente, sembrerebbe assurdo essere attratta da un posto dove un fetente odore di marcio circonda serpenti, pipistrelli, code di mucca, corna di impala, teste di scimmie, porcospini, armadilli, crani di iene, uccelli dalle piume colorate, mani di scimmie, tutti rigorosamente stecchiti, lì su banchetti, in bella vista, sotto un sole pungente che contribuisce all’aumento di esalazioni gassose nell’aria. Il mercato dei feticci (e togliamoci dalla testa l’idea della bambolina costruita dalla fattucchiera con gli spilloni conficcati da ogni parte) rappresenta un punto fermo della vita di un abitante del Togo (e soprattutto del Benin). Un feticcio può essere qualsiasi oggetto di qualsiasi forma: un sasso, un pezzo di legno, un albero. La fertilità e la fecondità sono rappresentati da oggetti.
Il feticcio rappresenta la divinità Vudù, le offerte ed i rituali a loro rivolti permettono di entrare in contatto con la divinità.
La religione animista è tramandata di generazione in generazione ed è ancora praticata con grande fervore. Non pensiamo alla magia nera, c’è qualcosa di molto più profondo e complesso difficile da capire per noi occidentali. Avrei voluto vivamente partecipare ad un rito vudù, purtroppo molti avvengono il fine settimana e come sempre il tempo è poco per approfondire la cultura di questi paesi. Mi viene spiegato che la trance è la manifestazione più importante, quella che accerta il contatto profondo stabilito tra l’individuo e la divinità: gli spiriti degli antenati sono entrati nel corpo della persona in trance ed iniziano a parlare per bocca sua. I riti sono accompagnati da canti, danze e sacrifici di animali. E poi, naturalmente, pozioni magiche, medicinali, protezioni per i viaggi, la salute, l’amore, ecc ecc.
Il viaggio continua…..una sosta a Coco Beach, poco fuori Lomè, spiaggia dorata ma un mare aggressivo che scoraggia vivamente un tuffo soprattutto per il vento forte, ma la passeggiata sarebbe piacevole, se non ci fossero tanti rifiuti.
Ritornano i villaggi, i tessitori, il forgiatore che prepara il lavoro, i bambini a scuola, il sarto
Finalmente un confine veloce. Al visto elettronico, l’addetto al controllo passaporti mette un timbro e indica di procedere: benvenuti in Benin. Si lascia quel piccolo fazzoletto di terra che è il Togo, per entrare in un altro, un po’ più grande, eppure così diverso. Già le strade sono piacevolmente asfaltate, scorrevoli, addirittura in alcuni punti un’autostrada a pagamento.
La rotta porta nell’antica capitale, Abomey, la città della Tratta degli schiavi. L’antico Regno di Dahomey, tristemente famoso per il suo re belligerante che vendeva i prigionieri di guerra ai portoghesi, i quali seguivano la rotta dal Benin, Togo e Ghana alla volta di Haiti, Brasile e Cuba. Dopo tre mesi di viaggio estenuante, se fosse arrivata metà della “merce” a destino, il risultato era considerato più che buono. Gli schiavi vennero liberati dal 1860 in poi in Brasile, ma sicuramente questa parte di Africa ha la terra piena di sangue. Nel regno di Dahomey, fondato dal popolo Fon, dodici sovrani si succedettero dalla fondazione al 1900. Ogni sovrano costruì un palazzo, da qui 12 palazzi, fino all’ultimo, il sovrano Behanzin che, dopo la sconfitta da parte dei francesi verso fine 1800, diede fuoco alla città di Abomey. Quello che resta, oggi fa parte del Patrimonio dell’umanità dell’UNESCO. Purtroppo l’incuria ha fatto la sua parte ed oggi la storia la si legge più nel museo (che ospita una grande collezione di oggetti appartenuti ai sovrani), che girando tra i palazzi vuoti (a volte con l’immondizia d’arredo). Per il resto pareti spesse almeno 50 cm permettevano all’interno una temperatura più fresca, mentre i cantastorie recitavano con gran dovizia di particolari la storia e le gesta di ogni re e diventavano fonte di ispirazione per quegli artisti che realizzavano i bassorilievi. In evidenza è rappresentato l’animale simbolo del sovrano.
Alcuni incendi in epoche recenti hanno causato ingenti danni, l’ultimo nel 2015. Il regno dei Dahomey fu un regno glorioso, tra i più potenti dell’Africa occidentale. Le teste mozzate dai nemici avevano un significato religioso, erano il sacrificio per potersi mettere in contatto spirituale con gli antenati. Ma le potenze coloniali presero come scusa la crudeltà di questi gesti per invadere il regno. Fu particolarmente famoso il regno del Re Ghezo, che aveva un esercito di amazzoni, quelle donne-guerriero, fedelissime, selezionate fin da bambine alla pratica e all’arte della guerra. La promessa era di portare al loro re due teste del nemico, e se al ritorno, sfortunatamente, ne avessero portata una sola, l’altra testa che veniva tagliata era la loro. Il re Guezo sarà celebrato da Bruce Chatwin, nel suo libro “il Viceré di Ouidah”, da cui è stato tratto un film, con Klaus Kinski nelle vesti di un negriero, affarista, schiavista ( “Cobra Verde”) e le sue venti mogli ufficiali. Oggi molte persone nel paese dichiarano essere discendenti del grande re.
Oggi persiste una forte rivalità fra i fon del sud e le etnie del nord: le mire espansionistiche, ma soprattutto la ricerca di nuovi schiavi da vendere alle potenze europee segnano una storia passata fatta di tanti soprusi e violenze, ed è difficile dimenticare.
Nei paesi intorno si trovano ancora molte case di fango
Dalla vecchia capitale si parte verso sud, verso la nuova capitale, anzi le due città più importanti del paese, Porto Novo e Cotonou, quest’ultima considerata la Milano del Benin. Alle porte di Cotonou il lago Nokoue’ è un meraviglioso specchio d’acqua da scoprire. Andate a Ganvié, salite su una piroga, chiudete gli occhi e lasciatevi trasportare. Quando riaprirete gli occhi vi sembrerà di essere a diecimila chilometri di distanza, sul lago Inle, in Myanmar. Le acque brulicano di barche che svolazzano leggere come farfalle. I ragazzi nella loro meravigliosa divisa che sa di pulito remano verso le loro lezioni quotidiane, le donne volteggiano con il loro fagottino sulla schiena verso la fonte, dove lunghe code attendono il turno per riempire bidoni di acqua pulita. Il mercato si anima, tra i colori delle verdure e della frutta che si mischiano ai colori degli abiti delle donne: la coreografia sembra una danza di Bollywood. Si nascondono e si arrabbiano quando vedono un obiettivo: è come se gli rubassi l’anima. E poi parlo con Roland, un ragazzo dai modi gentili che lavora in un ristorante e mi dice che molte persone pensano che noi turisti vendiamo le loro foto nel nostro paese ed e’ immorale lucrare sul prossimo.
Ora parto per il posto che più mi ha creato problemi, con il visto, una lunga allucinante storia infinita che vi racconterò a breve……..Ci vediamo in Nigeria.