Liberia
Prima di iniziare vi anticipo che non ci saranno molte immagini: purtroppo sono stata avvisata più volte del pericolo di girare con una macchina fotografica o con un telefono in vista. Ad una mia amica il telefono è stato strappato di mano. Stava mostrando alcune foto a dei bambini che ridevano contenti, quando un ragazzo un po’ più grande si è avvicinato. Appena lei ha sollevato lo sguardo lui le ha strappato il cellulare ed è fuggito a gambe levate. E poi la gente in questo paese spesso diventa aggressiva e minacciosa quando vede un obiettivo. Peccato, questo non aiuta sicuramente un turista ben predisposto a visitare un paese.
Ma partiamo da una favola o dal sogno di tutti, ma proprio tutti, i poveri e i meno poveri: il sogno di diventare ricchi e famosi. I soldi ed il prestigio, il denaro e la fama, la pecunia e la notorietà. Chi non l’ha mai sognato almeno una volta nella propria vita? Ed ecco la storia:
Prendiamo un uomo, cresciuto con 13 fratelli da una nonna, in una baraccopoli di quella che è la più piovosa città del mondo, dove in estate si raggiungono i 42 gradi con il 95% di umidità, un’infanzia povera ma dignitosa. Il 29 Dicembre 2017 quest’uomo si affacciava con la moglie, al Balcone, quello con la B maiuscola, per salutare la folla che lo aveva appena eletto Presidente della sua nazione.
George Weah, il « Re Leone », dopo una prestigiosa carriera che lo ha visto indossare le maglie dei club appartenenti all’élite dell’Europa del football: Monaco, Paris Saint Germain, Milan, Chelsea e Marsiglia, ha deposto le scarpette d’oro nel 2002 e da allora ha rincorso la carriera politica, culminata con l’acclamazione a primo cittadino del suo paese. Il possente centravanti è un’icona, una gloria nazionale, un esempio, Il Sogno. Ma, come in tutte le storie, c’è sempre un lupo cattivo che si fa avanti, in questo caso sono due. Il primo è certamente la povertà, che porta la Liberia al terz’ultimo posto nel mondo, in quella classifica drammatica che dichiara che oltre il 50% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Nel 1989 la ribellione armata di alcuni gruppi scatenò la guerra civile, che si protrasse fino all’inizio del nuovo millennio (2002). E poi l’ebola, flagello di questi paesi così delicati. L’economia del paese è stata letteralmente disintegrata, il PIL ha visto un crollo vertiginoso del 90% e il tasso di disoccupazione si è ora assestato al 50%.
L’altro lupo cattivo è la corruzione, quella malattia che colpisce tutta la piramide, dalla cima alla base. Ecco che l’elezione di King George è stata accolta con trionfo: nato povero, diventato ricco, anzi ricchissimo, non ha bisogno di denaro. E, d’altra parte, lo slogan nella sua campagna cercava consenso presentando un programma di lotta feroce alla corruzione.
“Re George” è al potere da un anno, l’inflazione è cresciuta costantemente al punto che il dollaro locale ha perso il 20% su quello statunitense. Gli scandali lo hanno travolto, tre dei suoi fratelli sono stati impiegati con ruoli (ma soprattutto salari) manageriali, pur non avendo alcuna competenza. E poi la strana storia di un container arrivato alcuni mesi fa nel porto di Monrovia e svanito nel nulla. Il contenuto? Il corrispondente di 88 milioni di euro in moneta locale, banconote liberiane, stampate in Cina e Svezia. Per chi pensa non sia molto per un paese, vi confermo che questo corrisponde al 5% del PIL della Liberia.
“Un anno è un tempo troppo breve per giudicare un operato”, dico al tassista di turno, un quarantenne decisamente colto e molto “smart”, che mi ha appena raccontato quello che ho scritto. Solleva le spalle e fa un respiro profondo, quasi in segno di arresa. Per il resto, posso solo pensare alla mia esperienza. Alla frontiera ho preso un taxi per raggiungere direttamente la capitale, mentre il resto del gruppo decideva di fare un paio di giorni di trekking. Partiamo per i circa 130 chilometri che ci porteranno in città.
Ed eccoli, all’improvviso, i check points. La solita corda stesa in mezzo alla strada, il tassista che inchioda, lo scambio verbale con il poliziotto che guarda all’interno. Vedo un passaggio di pugni chiusi (da cui spunta una coda di banconota) e la corda che cade….Saranno ben 6 controlli, di cui uno con ritiro passaporto. Un po’ ansiosi, dopo più di venti minuti, il tassista torna dicendo che è tutto a posto, e : “funziona così nel nostro paese. Anche nel vostro?”. Faccio finta di non aver capito, mi dispiace renderlo infelice.
Arriva presto il buio, la strada è senza illuminazione, i fari delle auto sembrano lucciole che arrivano all’improvviso e spariscono velocemente. Tantissima gente cammina ai bordi della strada, ombre impercettibili che si muovono in fila indiana. Siamo ancora lontani dalla periferia, quando il tassista premuroso verifica che le porte siano ben chiuse, i finestrini pure. C’è da scegliere tra 1) rischiare di essere assaliti o 2) di morire asfissiati…scegliamo la seconda.
Arrivata nella capitale, nell’hotel, ci viene subito detto di fare attenzione, non uscire con zaini o borse visibili. E soprattutto rientrare prima del tramonto.
E così mi ritrovo a passeggiare, sola, una domenica mattina, in una città semideserta, senza macchina fotografica, con 10 dollari americani in tasca (si, perché qui, se paghi in moneta locale, il dollaro liberiano, ti applicano un aumento minimo del 10%. Tutti preferiscono i dollari americani e in quasi tutti i ristoranti il menu’ è solo in dollari americani) ed il telefono ben nascosto in una tasca interna dei pantaloni.
In città, sotto una cappa pesante malgrado sia inverno, la domenica mattina ci sono tanti barboni per strada, che giacciono sui marciapiedi, arrotolati tra la sporcizia o che vagano come zombie; qualche donna, con il bambino sulle spalle, brontola una frase in inglese strascicato. E poi eccolo, il canto allegro e tonante, un Alleluja (che renderebbe orgoglioso Léonard Cohen) che scuote improvvisamente il triste torpore delle immagini intorno. Arrivo davanti alla Chiesa e due donne sorridenti avvolte in colorati vestiti da festa, mi invitano ad entrare. Si apre un’ala e mi fanno spazio. Resto ad ascoltare. Il prete ha finito la predica: giustizia, uguaglianza, gioia. “Siate felici, Dio è con voi. Se mi aiutate a raccogliere un po’ di fondi, rifaremo questo altare che inizia a mostrare i segni dell’età. Siate felici, Dio è con voi”. La retorica del buonismo. Vorrei urlare: i fondi dateli a quella povera gente che vaga per le strade, non per rifare un fottuto altare. Scusate lo sfogo, qualcuno arriccerà il naso e, in questo caso, sono pronta ad un confronto, in qualsiasi momento. Oggi, con gran rabbia, vorrei urlare a squarciagola: “Se Dio esiste, non ha ancora avuto il visto d’ingresso in Liberia!”. Guarda caso, l’86% dei Liberiani sono cristiani ed il 54% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. E mi sembra l’ora di parlare anche di un altro problema, non specifico della Liberia, ma dell’Africa, in generale, l’AIDS. Non si sente più parlare di questo flagello, perché le morti si sono drasticamente ridotte. Ma a volte gli incontri ti fanno pensare. Ho parlato con Luiz, un orgoglioso Dottore in un ospedale della città, incontrato in un ristorante. Mi ha detto che oggi si registra un aumento dei casi di AIDS tra i giovani di età compresa tra i 10 e i 19 anni. Ed il picco è nei paesi ad alta presenza Cattolica. In Uganda, per esempio, la maggior parte dei giovani non sanno cosa sia il preservativo perché è proibito parlarne, quasi fosse un reato. La campagna di sensibilizzazione all’uso del profilattico lanciata dal Governo, è stata fortemente osteggiata dalla Chiesa Cattolica, retrograda e bigotta, che riesce ad avere facile presa sulla disperazione e sull’ignoranza della povera gente. La campagna è di conseguenza stata interrotta ed il contagio è aumentato. E il caso ugandese è solo uno dei tanti. La stessa tragedia si sta consumando in TUTTI i paesi Africani a forte credenza cattolica. E il risultato lo vediamo oggi con questo nuovo importante allarme lanciato dalla UNAIDS. Giusto per evitare polemiche sterili, sono ben cosciente che il problema dell’AIDS è colpa dello Stato: in questi paesi non esiste welfare, non esistono pensioni ed i figli sono la speranza per la vecchiaia, ma ribadisco la Chiesa ci ha messo Molto del suo ed ha delle stramaledette colpe! E poi, ai tanti finti buonisti che sono convinti che veramente le persone qui facciano figli solo perché saranno la loro pensione, aiutandoli quando loro non saranno più in grado di lavorare, chiedo: perché la maggior parte delle mamme, quando i bambini mi corrono incontro e mi prendono per mano seguendomi, dicono: “Prendilo, portalo via con te!” . Questa è la disperazione, questo è straziante! Apriamo gli occhi!
E per finire con la Chiesa Cattolica, vi anticipo un episodio che ho vissuto in Liberia. Attraversando il paese, tra ridenti colline verdi e villaggi “pittoreschi”, con mercati in mezzo a colline di immondizia, un guasto al motore ci ha costretti a cercare un rifugio, per un paio di giorni.
La vista di una Missione è sembrata un miraggio. Il sacerdote ci ha accolto con un gran sorriso e ha detto di essere pronto ad aprire il portone della sua missione: Potevamo tranquillamente montare le tende nel cortile della scuola, in cambio di un’offerta “volontaria” di ALMENO 5 dollari/persona/giorno (da notare che il PIL della Liberia è poco superiore a 400 dollari/anno). Al mattino alle 6 in punto sento delle urla. Esco dalla tenda e vedo il sacerdote paonazzo che punta il dito: “togliete immediatamente quegli oggetti, tra poco arriveranno i bambini e non devono vedere!”. Gli oggetti del peccato, la vergogna da nascondere, l’orrore …..sono un paio di reggiseni e qualche mutanda (neanche in pizzo!), stese ad asciugare. Lascio a voi i commenti!
Tornando a Monrovia, questo potrebbe essere un luogo ameno, data la posizione. La città è sorta vicino ad un lungo litorale: peccato che la spiaggia sia una discarica a cielo aperto.
Il mercato è l’Africa degli odori, a volte troppo acri, come il pesce affumicato tra tubi di scappamento che tossiscono la loro età avanzata e l’afa pesante. Ma è anche i colori degli abiti delle donne, sgargianti ed allegri. Per le strade del centro si lavano i tuk-tuk, il vero mezzo di trasporto della capitale, ci si ferma per un barba e capelli sul marciapiede o ci si riposa tra un cliente e l’altro.
Tra la sporcizia maleodorante, basta seguire una vettura di grossa cilindrata, lucida e profumata per arrivare nel “regno dei bianchi”. Il Mamba Point è un Hotel 4 stelle vero, con l’aria condizionata (fortissima!) ventiquattr’ore al giorno (per informazione gli Hotel in città hanno prezzi molto alti: questo è dovuto in parte alla discontinuità dell’erogazione di energia elettrica. Negli alberghi frequentati dagli stranieri, infatti, vi sono generatori indipendenti che garantiscono l’elettricità 24h al giorno, ma che fanno lievitare enormemente i prezzi delle camere). E una splendida piscina, ed un paio di ristoranti, dal Sushi Bar, all’internazionale, con prezzi alti anche per i miei amici scandinavi. Parlando con il proprietario (libanese) scopro che in città ci sono parecchi supermercati.
Avrò occasione di entrare in un paio di questi: immaginate un classico supermercato perfettamente organizzato, pulitissimo, ben illuminato, con corsie pieni di ottimi prodotti, completamente vuoto (tre-quattro persone al massimo). I prezzi sono i più cari mai visti, neanche a Montecarlo, dalle zucchine a 16 dollari/kg alla bottiglia di Moet Chandon a quasi 200 dollari, ai formaggi con i cartellini di Cartier. Mentre sono alla cassa e scambio un paio di battute con la commessa dai capelli rasta color del cielo e unghie lunghissime laccate verde smeraldo e ciglia finte chilometriche, alzo gli occhi e vedo lui, in postazione elevata, sulla torretta con visione a centottanta gradi, che controlla ogni singolo movimento. Mi guarda e chiede: “di dove sei?”. “Italiana”. “Ci assomigliamo, libanesi ed italiani hanno gli stessi lineamenti, e spesso parlano con le mani”. “Posso pagare con valuta locale?” “si, ma non ti conviene, il cambio è sfavorevole”.
E poi l’Angers Bar, un ristorante moderno che piacerebbe a Philippe Stark, con vista mare e chili di pesce fresco, delizia per occhi e palato. E l’immancabile hummous. Il proprietario? Indovinate.
Rimarrò con il dubbio della presenza di questa folta colonia libanese, tra Hotel di prestigio e supermercati lussuosi vuoti e ristoranti cari e qualche casinò ben nascosto.
Ma i libanesi non sono i soli stranieri in Liberia. In un paese con le casse vuote e la popolazione che ha fame, gli investimenti cinesi sono diventate le entrate di valuta estera su cui contare. La costruzione di strade ed infrastrutture (tra cui ospedali) sono finanziate dalla Cina, che sta anche donando borse di studio nelle università cinesi. L’obiettivo è di formare una classe dirigente liberiana modellata sul pensiero cinese. Generosità? Forse lungimiranza. Un paese debole, con un tessuto sociale ed economico a pezzi, è forse una buona preda, un sogno di colonizzazione neanche troppo complesso.
Nel frattempo Pechino ha preso il controllo dei giacimenti liberiani di ferro e la tattica di installare e produrre nel paese acciaio pesante (raggirando, di conseguenza, le misure protezionistiche americane, creando qui unità imprenditoriali locali), suona come una incredibile opportunità per trasformare la Liberia in una colonia. Uno scenario piuttosto inquietante, con da una parte la grande Cina che rafforza la sua produzione industriale e la Liberia che sogna di ricevere gli investimenti per ricostruire il paese dalle due grandi potenze in forte rivalità (USA e Cina), ma con una realtà più vicina, forse, al passaggio da protettorato americano a protettorato cinese. Sarebbe davvero incredibile, anche perché la Liberia è un caso unico nel panorama africano, essendo infatti il solo paese del continente a non essere mai stato colonizzato dagli europei. Il nome Liberia “la terra dei liberi” le fu dato dagli ex-schiavi neri provenienti dall’America che si insediarono in questo territorio. A metà del milleottocento nacque una nazione fondata sul modello degli Stati Uniti che visse felice e contenta fino ai colpi stato e poi la guerra civile, ecc ecc della nostra epoca.
In città ci sono ancora le tracce di un’era gloriosa. Basta prendere un tuk-tuk e pronunciare la frase misteriosa: “Ducor”. La motoretta sfreccia tra la folla e poi inizia ad inerpicarsi sulla collina, tra cemento dissestato e plastica, fino in cima. Tutto questo per vedere il mostro, quello che resta di un sogno. L’Hotel Ducor ha ammaliato i re e le regine di mezzo mondo, ha sedotto I presidenti di tutta l’Africa. Quando è nato era uno dei pochi cinque stelle d’Africa, ritrovo dell’élite politica del mondo, tra un cocktail vista mare e sottofondo musicale di Miss Miriam Makeba in persona, che rendeva tutto così poetico e magico. Uno dei più prestigiosi luoghi dell’Africa. La crisi, la guerra, l’attacco degli squatters che ne hanno fatto la loro dimora per anni, una morte lenta e dolorosa che non si meritava. I tentativi di ritorno alla gloria sono recenti. Un architetto italiano ha vinto il concorso per ridare nuova vita al morente, ma la mancanza di fondi ha impedito che tutto ripartisse. E lo scheletro continua a tremare, un mostro di cemento che domina una città, un brutto ippopotamo grigio, una colata bucata. E per chi proprio non vuole dimenticare, o forse solo perché vuole toccare la terra che hanno calpestato le materie grigie del mondo, basta andare davanti alla grande cancellata di ferro.
Arriverà un custode pronto ad aprirti (per 5 dollari, naturalmente americani, intascati velocemente, dopo aver controllato che non vi siano poliziotti nei dintorni) e lasciarti girovagare tra detriti e cemento, scale rotte senza balaustra che portano all’ottavo piano. È una sfida, forse stupida, perché non ci sono barriere di soccorso, quindi è tutto a tuo rischio, ma cos’è un gradino che barcolla al settimo piano con il rischio di sfracellarti nel nulla, rispetto al fatto di dire “io ci sono stato/a?”.
Lasciata Monrovia senza rimpianti la strada attraversa verdi pianure, tra la coltura della gomma e villaggi, con le donne che vanno a lavare i panni nel fiume e molte stazioni di servizio con i loro pochi litri di carburante ben esposti sotto un sole pungente.
La gente chiede soldi o urla minacciosa davanti ad un obiettivo che vorrebbe semplicemente immortalare un momento di vacanza.
Le cascate di Kwpatawee a nord sono una sosta per gli amanti del relax. Un bagno rigenerante od una semplice camminata nella foresta per scappare dalla calura asfissiante.
Ma il turista classico non può non fermarsi a Robertsport, mecca dei surfisti, ritrovo internazionale degli amanti delle onde. Scivolare sull’acqua, cavalcare le onde dell’oceano, Robertsport è la mecca africana del surf, pare sia addirittura una tra le migliori località al mondo per praticare questo sport, poiché la sua posizione privilegiata, un promontorio nell’Oceano Atlantico, fa sfruttare correnti più o meno intense ed in varie direzioni. Ma è durante la stagione delle piogge, da aprile a settembre, che i più temerari eroi dell’onda accorrono inseguendo quei venti costanti che alzano onde da brivido, alte fino a cinque metri.
Facendo il giro del mondo si attraversano paesi o zone che lasciano il segno ed un forte desiderio di tornare, più o meno intenso, nell’immediato o a termine. A volte ci sono paesi che vorresti rivedere anche solo per le bellezze naturali, o per gli incontri speciali, che hanno innescato sentimenti di simpatia o voglia di condivisione o approfondimento. La Liberia non ha scatenato nulla in me, nessun desiderio, nessun sentimento, solo un gran vuoto, una tristezza per gli avvenimenti capitati, ma anche rabbia, perché molti degli incontri fatti erano puro interesse, dall’ipocrita bigottismo dei preti cattolici, ai libanesi affaristi. Auguro comunque tutto il bene ad una nazione che non merita certo di essere in balia di tanti cialtroni, che approfittano di una debolezza o della disperazione. Continuerò, comunque da casa, comodamente seduta, a leggere la scalata del “Re Leone” e le vicissitudini di un paese che non mi ha dato davvero nulla, sperando un giorno di trovare uno stimolo per dovermi ricredere. Ne sarei felice, perché vorrei davvero scrivere una storia a lieto fine per questo paese.
Per ora mi attendono alcuni giorni di viaggio, con strada più o meno sterrata e tanti ma tanti incontri…
Ciao ciao!!! Ci vediamo in Costa d’Avorio.
2 risposte
Illuminante e interessantissimo come sempre, grazie amica mia, i tuoi articoli sono straordinari, permettono di conoscere i posti e vederli attraverso i tuoi occhi, la tua intelligenza e la tua sensibilità!
Grazie Amica, i tuoi commenti mi lusingano.grazie ancora